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venerdì 20 settembre 2013

Di calcio, di rifiuti e d’altre cose…



Il calcio, si sa, oltre ai sentimenti degli appassionati, muove tante altre cose, soprattutto economico-finanziarie. Siamo in questo a una svolta strutturale. Bilanci sani, stadi di proprietà, ridefinizione delle remunerazioni. In Italia alcuni club si stanno comportando meglio di quelli europei, peccato che l’azione di governo (sia locale che nazionale) non accompagni con misure incisive quest’azione di risanamento. Tra l’altro mettere in cantiere la costruzione di quattro/cinque grandi stadi darebbe fiato a tante imprese piccole e medie dell’edilizia e del suo indotto. Oltre a cogliere un’occasione di riqualificazione di aree urbane e metropolitane.  Si preferisce, invece,  attizzare le polemiche, costruire polveroni, lisciare il pelo agli ultras. C’è bisogno di svecchiamento e di sburocratizzazione delle istituzioni specifiche del calcio e dello sport. Qualcosa si muove ma con eccessiva lentezza. Torino e Roma, al netto delle immaturità di frange di tifosi, stanno meglio di Milano, dove una squadra è ancora prigioniera del conflitto di interesse del padrone e l’altra sta per passare di proprietà e non è chiaro se questa si muoverà nel rispetto del fair play finanziario o se replicherà i difetti dei paperoni russi, arabi o spagnoli, con grave danno per il rigore nazionale. Il Napoli, liberatosi del provincialismo vittimista di Mazzarri e avendo investito intelligentemente la plusvalenza del mercato, può ritrovare una stabilità nei livelli alti ed è un’ottima notizia. «Siamo ciò che facciamo ripetutamente. L’eccellenza non è un atto, ma un’abitudine» Diceva Aristotele. Al Napoli questo è mancato ma Benitez è l’uomo giusto per radicare questa abitudine e non farsi risucchiare dall’interessato e plebeo  vittimismo meridionale.  Roma e Fiorentina sono due splendide realtà destinate a crescere quanto più i propri manager sapranno rendere impermeabile i rispettivi spogliatoi alle interferenze delle tifoserie, vera croce e delizia di questi club. Insomma ci sarebbero le condizioni per riprendersi l’eccellenza in Europa investendo, fuor di chiacchiera e retorica,  in giovani, collettivo e sudore. Il 2014 è l’anno dei mondiali in Brasile. Ci siamo già qualificati. Il mio sogno è di arrivarci con una Italia cambiata nei vertici. In tutti i vertici. Un’Italia dimezzata nella sua burocrazia gerontocratica e rallentatrice, liberata dalle vecchie figurine del Novecento. Aggiungo un sogno che mi perseguita: un’Italia che costituisca l’Ente nazionale rifiuti, togliendo quella che è una risorsa moderna alla rete criminogena degli interessi e delle incompetenze particolari ed affidandola alle soluzioni della Scienza e della Tecnica. È il mio personale bandolo della matassa…   

martedì 13 agosto 2013

I "misuratori dello spessore" di Matteo Renzi

Una onesta analisi dei fatti, libera da interessi particolari, di fazione, di corrente o di corporazione, che non vi sovrappone, dunque, aspettative cariche di difese ideologiche o di privilegiate posizioni di rendita, sibbene mira alla sostanza della domanda principe, chi sia il più adeguato politicamente a conservare e innovare, non può che portarci a considerare con grande simpatia Matteo Renzi. I sondaggi, da quasi due anni, lo danno in testa alle classifiche di gradimento dell’opinione pubblica con livelli tali - massime se comparati con Silvio Berlusconi e Beppe Grillo - che è evidente come il giovane politico fiorentino sia percepito allo stesso tempo portatore di una vis destruens e di una vis construens. Vale a dire che il suo messaggio politico possiede entrambi   i corni che determinano insieme, nel nostro paese, un largo consenso, interclassista e generazionale. 

La stessa onesta interpretazione dei fatti ci fa dire che proprio per questo, nelle passate elezioni - di fronte a un gruppo dirigente democrat mostratosi scarsamente lungimirante, poco aderente agli umori dei cittadini e fondamentalmente conservatore nello sbarrare il passo al giovane contendente le primarie - l’elettorato si è tripolarizzato. Beppe Grillo è il destruens per eccellenza, Silvio Berlusconi la delusione reiterata di rivoluzioni liberali mancate, Pierluigi Bersani il simbolo di un consociativismo almeno corresponsabile della cattiva amministrazione della cosa pubblica. Il risultato elettorale ha così prodotto lo stallo che conosciamo, obbligato Giorgio Napolitano ad accettare il secondo mandato, Enrico Letta a guidare un governo di larghe intese per un programma minimo. Nei primi cento giorni l'esecutivo non è apparso fondarsi   su un programma anticipatore del minimo comun denominatore delle principali forze politiche, bensì su un prolungato braccio di ferro in chiave elettorale, con modalità che nessuno dei due principali leader del Pdl e del PD, profondamente ammaccati e feriti, appaiono in grado di definire, nonostante il pregiudiziale richiamo del Presidente della Repubblica. Un congresso libero e aperto del PD sembrerebbe l’unico passaggio efficiente per sbloccare questa situazione. Sono convinto che, nonostante in molti stiano spendendo le loro inesauste energie per disperdere l’ennesima occasione di svolta, l’assise politica dei democratici si farà incoronando leader Matteo Renzi. 

 In questa prospettiva che mi appare avere dalla sua la forza potente delle cose, si stanno levando,da destra, dal centro e dalla sinistra, i “misuratori dello spessore” del prossimo leader democratico. Cosa significhi “avere spessore” quando la domanda riguardi un politico vincente tra i suoi e nell’elettorato, è qualcosa che ha a che fare con le pretese mediatiche di lobby assurte a katechon, al potere che frena, direbbe il filosofo. Lo spessore di un politico , se vogliamo restare fedeli a questa terminologia, lo misurano il consenso e l'entusiasmo in grado di determinare. L'efficacia, una volta eletto, la dimostrerà l'azione di governo. Se poi con spessore si volesse intendere altro di specialistico, di accademico, di lungo corso burocratico, di titoli ed esami, staremmo, nella morente seconda repubblica, sfidando il ridicolo di fronte alle ripetute magre figure di conclamati e venerati "spessori". Tuttavia essendo da molti anni scomparsi quei pochi grandi commentatori che separavano i fatti dalle opinioni, per misurare lo spessore di qualcuno bisognerebbe esserne dotati e, soprattutto, certificati. Non mi sembra questo il caso di questi sussiegosi chiosatori.

giovedì 4 luglio 2013

Giaccherigno

Siamo degli insopportabili provinciali. Incapaci di guardare al fondo di noi stessi come popolo. Pronti ad esaltare sempre gli altri, Arriviamo persino ad essere razzisti verso noi stessi. Forse perché siamo i più vecchi e imbastardi del mediterraneo e dunque della storia della civiltà. Bruciati dai Vandali, impalati dai Saraceni, impestati dai Lanzichenecchi, ci siamo fatti furbi e cinici per sopravvivere. Caritatevoli per battesimo continuiamo a schiamazzare e a vociare su un bagnasciuga incuranti di un povero morto. Abbiamo costruito i comuni e le città più belle grazie al sudore e alla maestria geniale degli artigiani e corriamo compulsivi appresso ad ogni moda effimera. Nel gioco del calcio diamo il meglio e il peggio di noi stessi. Sia nel parlarne che nel praticarlo. E pure rappresentiamo, in questo che è il gioco più amato del mondo, una scuola tra le più vincenti. E, bisogna dirlo, il calcio, oltre ad essere un grande produttore di fatturato è anche un potentissimo veicolo comunicativo. Ma nel nostro calcio - come d’altronde nella nostra poltica - soffriamo di strabismo e di superficialità.

Mercoledì scorso si sono giocate in Brasile due partite decisive della Coppa delle federazioni. Brasile vs Messico e Giappone vs Italia. Cena leggera, sigarette e acqua minerale ghiacciata. In calzoncini e maglietta mi sono seduto nella mia nuova poltrona e non ne ho perso un minuto, commenti compresi. I Carioca hanno battuto i messicani due a zero, gli Azzurri hanno sconfitto i Bianchi del sol levante quattro a tre. Il primo incontro è stato di una noia mortale. Messicani gran palleggiatori fino ai venticinque metri ma dimentichi che il pallone va alla fine indirizzato verso la porta. Brasiliani che affidavano con lanci lunghi le loro sorti al nuovo re del mercato mondiale, il ventunenne Neymar. Suo il primo gol e suo il merito del secondo. Un tiro al volo da dentro l’area e un assist dopo un tunnel e una serpentina tra due difensori immobili. Durante la partita ho osservato questo nuovo eroe brasiliano lasciarsi cadere più volte al minimo contatto con una capacità recitativa del dolore pari alle sue indubbie doti tecniche. I commenti dei vari esperti assemblati nei vari network hanno raggiunto il diapason della glorificazione. Al punto che mi sono chiesto se avessi assistito ad un’altra partita. La mia indignazione si è interrotta con gli inni nazionali dell’incontro più atteso.

Due panchine dirette da due allenatori entrambi italiani. Allenatori coscienziosi, seri, di scuola italica appunto. Si è visto subito che la nostra compassata portaerei non ce la faceva a reggere l’assalto martellante e indemoniato di una squadriglia di kamikaze. Nei venticinque minuti iniziali differenza di corsa e aggressività ma anche errori tattici. Ai secondi il nostro Prandelli ha rimediato con un cambio immediato, ai primi, viste le scorie accumulatesi nelle gambe dei nostri reduci dal campionato e dalle coppe, non c’era modo di rimediare se non con lo stringere i denti e sputare i polmoni. Due a zero a favore dei nipponici in poco più di trenta minuti. Roba da schiantarsi. Ma la reazione c’è stata . A guidarla non è stato un dominatore dei mercati, né un re del gossip pallonaro, ma un giovanotto piuttosto da libro Cuore, pedatore di lunga gavetta, maestro del dà e vai, corridore che quando entra in area, dopo una corsa sfianca polmoni, insacca la testa tra le spalle come una testuggine per succhiare l’ultimo ossigeno e concentrarlo nel tiro. Giaccherigno, come lo ha orgogliosamente ( e polemicamente) ribattezzato Antonio Conte, l’allenatore vincente che lo ha preso dal Cesena. Già, Giaccherini brasiliano, che salta l’uomo pestando la linea di fondo, che fa l’assist e si inserisce e tira. Che ha mai fatto Neymar più del toscano ieri sera.? Quel dribbling bruciante in area e il tiro secco che s’è stampato sul palo? E la magia della palla ripresa sgusciando dietro la schiena dell’incredulo difensore giapponese e il traversone teso e violento che obbliga all’autorete? In una partita guerreggiata all’ultimo sorso di energia nell’apnea del Pernambuco, Giaccherini è stato il vero eroe dello storico, tanto insperato quanto cabalistico quattro a tre. Eppure i facitori dell’opinione sportiva, ormai competenti di calcio meno dei frequentatori di un bar del lunedì, hanno decretato che il sondaggio dei migliori riguardasse i due narcisi destinati già nei commenti precoppa a segnare il torneo. Lo strapagato e volubile numero 10 carioca e il nostro muscoloso e irritabile 9. Ma noi che viviamo l’Italia con occhi più compassionevoli, abbiamo sofferto e partecipato per un’altra partita. E ce la teniamo stretta assieme alle immagini del nostro umanamente immenso numero 22

Top player? No, The Artist

I piedi di Paul Pogba, non affondano nell’erba del prato verde, come quelli di tutti gli altri pedatori di football. Il watusso bianconero, come tutti i cacciatori degli altipiani della sua razza, corre leggero su cuscinetti d’aria. Avanza a testa dritta; caracolla quasi indolente, scarta, gira su se stesso e continua a danzare con il pallone legato da un invisibile elastico alla sua sottile caviglia di fondista. Passa la palla in corsa e staziona visibile e raggiungibile per soccorrere il compagno triangolatore. Se deve recuperare il pallone sfuggito le sue leve disegnano archi improbabili e i suoi piedi si fanno prensili per riprendersi il maltolto e ripartire. Solo quando decide di beffare ai 25 metri l’estremo difensore avversario, solo allora, i tacchetti del suo scarpino colorato, in appoggio, perforano il sostegno impalpabile che li sorregge leggero per affondare sulla zolla del campo a caricarsi dell’energia per disegnare la parabola imprendibile. Il tifoso bianconero, che per la prima volta lo ha visto apparire nel campo nobile e familiare di Villar Perosa, complice un destino beffardo e lungimirante che lo ha sottratto alle cure del, buon per noi, troppo temporeggiatore Ferguson, ha finalmente, lì dove i passaggi banali si tramutano in illuminazione artistica, l’interprete di un lungo tratto di futura gloria e di gigantomachie. Paul Pogba. Nella sequenza onomatopeica delle due P, intervallate da un attimo impercettibile di sospensione, c’è l’esplosione ripetuta - Pum, pam - che nei fumetti che ancora amiamo accompagna l’eroe vendicatore di torti nel duello finale.
Top player? No, The Artist, e per noi italiani figli del Rinascimento è il massimo.

martedì 25 giugno 2013

Lasciate che i morti seppelliscano i loro morti


Il cavaliere Silvio Berlusconi è stato condannato a sette anni e all’interdizione perpetua dei pubblici uffici dal Tribunale di Milano. A Roma si balla sulle terrazze e si fanno trenini che non portano in nessun luogo, a Milano per ben due volte, nella sofferta storia d’Italia,  i cavalieri della destra subiscono condanne definitive. Nel 1945 c’era stata una guerra mondiale sanguinosa  voluta da una dittatura. Nel 2013 la guerra è economico finanziaria, Arricchisce chi ha di più impoverisce i già poveri e l’intero ceto medio. Chi ci ha governato ha responsabilità inappellabili. Hanno esagerato i giudici di Mulano?. È probabile che lo abbiano fatto. Ma Silvio Berlusconi è unfeat to lead per mille e uno motivi, non ultimo la natura partitica e non trasparente del suo enorme potere imprenditoriale, economico, finanziario, mediatico. La sentenza non travolge solo lui. Travolge tutte le vecchie oligarchie, tutte le caste, comprese quelle di opposizione. Lui è l’ultimo fantino rimasto a cavallo. Ha tenuto l’incollatura per l’inettitudine dell’avversario, ma ha sfiancato il proprio cavallo - sei milioni e oltre di voti persi - drogandolo con promesse demagogiche irrealizzabili. La caparbietà dell’inetto oppositore durante le quirinalizie  ha concesso al morto politico Berlusconi una veglia funebre prolungata  il cui seppellimento non può essere esorcizzato da nessun miracolo, che pure in queste ore viene evocato dai critici sofisti della cosiddetta magistratura combattente. Il Paese lo aveva già seppellito. Pierluigi Bersani e molti degli eredi del PCI che hanno condotto il PD nella più insensata e  presuntuosa campagna elettorale lo hanno ricollocato sul catafalco delle larghe intese.

Ora siamo di nuovo lì. Il governo Letta sarà ancora più paralizzato dall’ira dello zombie politico. Il rinvio è la parola d’ordine mentre la sponsorizzazione del cavaliere è una bomba innescata per far deflagrare il conflitto istituzionale. Chi sta tra la gente vede come i cittadini faticosamente stiano tentando, nonostante questi partiti,  di riprendere il filo per nuove imprese, nuovo lavoro, nuove prospettive guardando ai fuochi di artificio che vengono dai palazzi, come ai sussulti mortali dell’occhio di Gondor. Lasciate che i morti seppelliscano i loro morti, diventa imperativo per tutti quelli che dipendono dal proprio lavoro quotidiano, dalla propria  intelligenza creativa.  

Non c’è un attimo da perdere. Il Sindaco di Firenze, Matteo Renzi è veramente una risorsa, l’ultima per la democrazia costituzionale, così come l’abbiamo immaginata.  Anche per le sue decisioni non c’è più il tempo dei rinvii. Si deve andare al voto. Il Paese ha bisogno di un leader a cui dare la forza e il tempo materiale necessario per ricostruire un ciclo virtuoso di profili culturali, formativi, economici, finanziari per riportare l’Italia all’altezza delle sfide future e fuori dal pantano fangoso a cui lo sta condannando l’incapacità di decisione di una burocrazia tanto inetta quanto rapace.  Sfidi, Matteo Renzi, pubblicamente il M5S a presentare congiuntamente una riforma della legge elettorale.  Beppe Grillo continuerà a scommettere sul collasso italiano e dirà di no?  Sarà processato anche lui, politicamente in questo caso, come già sta avvenendo. Il PD faccia un congresso aperto e inclusivo e ci porti al voto, con qualunque legge, anche con questa porcata, ma lo faccia con la guida a vocazione maggioritaria dello spirito fondativo. 

mercoledì 29 maggio 2013

Un nuovo PD : unica speranza di cambiamento


Il test elettorale che ha riguardato sette milioni di italiani, tra i quali un aggregato molto specifico come i cittadini romani, governati dal centro destra, conferma ciò che nell’analisi è sempre più chiaro da un quadriennio: la rottura del patto sociale, la crisi delle nomenclature che hanno governato venti anni della cosiddetta seconda repubblica, il vento populista che gonfia e affloscia le vele di personaggi mediatici che non riescono ad andare oltre la denuncia: si chiamino Orlando,  Silvio Berlusconi, Di Pietro, De Magistris, Beppe Grillo.

L’astensionismo cresce a dismisura. Negli ultimi tre mesi a quello provocato dal disgusto per le pratiche sorde e opache dei partiti si è aggiunto lo sconcerto di 55 giorni di confusione quirinalizia originata da una direzione del PD tanto incapace quanto tetragona a tutti i ragionevoli e chiari segnali inviati dall’elettorato. La sfiducia nell’attuale sistema della rappresentanza coinvolge la maggioranza dei cittadini. Che il fenomeno preluda a un conflitto sociale che scelga strade di rottura e violente dipenderà molto dal persistere della crisi con l’impraticabilità delle tradizionali politiche espansive della spesa pubblica. Se l’Europa del Nord acconsentirà all’allentamento del rigore è possibile  che le politiche di spesa permettano il riassorbimento delle tensioni più acute? E, in questo caso, il nuovo astensionismo si aggiungerà a quello tradizionale postbellico e accadrà da noi quello che già avviene negli USA dove la espressione attiva del voto è costantemente bassa? Ho seri dubbi. I due sistemi politico sociali non sono meccanicamente  comparabili. Ciò che negli USA è fisiologico da noi è invece il  portato di una protesta contro  un feudalesimo politico e  finanziario che alimenta rendite di posizione ormai insopportabili e non riassorbibili nel ciclo perdurante di una crisi continentale di lunga durata. Paghiamo quindi i ritardi di una mancato investimento nell’innovazione, nella formazione, nella specificità manifatturiera. Non ci mancano i fondamentali per uscirne fuori, ma ci occorrerebbero dieci anni di un monocolore ampiamente maggioritario sostenuto da una visione condivisa.

Grillo e Casaleggio puntano alla fine dei partiti negando ogni politica delle alleanze. L’idiosincrasia della mediazione è figlia della convinzione che gli interessi della cittadinanza non siano mediabili con quelli che detengono il potere politico oggi. Lo sfascio, l’inettitudine, la povertà del personale politico imperante è tale che non è facile smontare la convinzione del gruppo dirigente pentastellato: hanno fatto un pieno così tumultuoso e mai registratosi prima di voti che la controprova del recupero è evidentemente onere di altri. E in ogni caso in quel movimento si agitano, accanto a posizioni risibili, indubitabilmente spinte verso una rappresentanza della decisione e della partecipazione che vanno fuori dai confini nazionali e hanno forti analogie al nord , al sud, ad ovest e ad est del mediterraneo. In Germania sta nascendo il Bewegung 5 Sterne. C’è quindi un disagio di fondo nei popoli europei che è analogo sia nei paesi poco virtuosi  dell’Europa del sud che in quelli più previdenti e rigorosi del Nord.  

Tuttavia, in Italia, il dimezzamento del M5S, nel breve arco che va dalle politiche alle amministrative del 26-27 maggio, è troppo rapido per non contenere tra le sue cause, oltre alla tipica volubilità dei comportamenti dentro l’aggravarsi di una crisi sistemica, la critica ad una povertà del personale politico e all’inconcludenza nel governare che questo nascente movimento ha dimostrato in uno degli appuntamenti istituzionali più alti italiani: la Presidenza del Consiglio e la Presidenza della repubblica.

Silvio Berlusconi, con una campagna elettorale politica di eccezionale sforzo mediatico e finanziario - concentrata populisticamente sui punti sensibili immediatamente proprietari e fiscali -  ha impedito che il tracollo elettorale del centro destra fosse totale, pur perdendo oltre il 16% dei voti. Un capolavoro tattico, accresciuto dallo stallo tripolare consegnatoci dal porcellum e dall’impetuoso avanzare del M5S, ma al tempo stesso un non senso strategico, di fronte a una crisi che non ammette altre soluzioni se non di  affiancare alla radicale riduzione dei costi della politica e della burocrazia statale e locale  una redistribuzione della ricchezza parassitaria accumulatasi in oltre un ventennio e una permanente lotta all’evasione. Il blocco sociale e politico che sostiene le ultime barricate del Cavaliere, questo lo sa perfettamente: cerca di rinviare il dimagrimento obbligatorio sostenendo un signore che non ha visione strategica ma solo ossessioni personali giudiziarie e, anagraficamente, poco tempo a disposizione. Questo centrodestra è ingessato dall’origine monocratica e personalistica del suo apparato politico: trova dunque grandi motivazioni nel primum vivere ma una incredibile incorenza pratica nell’azione riformatrice liberale che ha promesso e di cui il paese aveva ed ha un urgente bisogno. L’occasione che l’inettitudine e la sordità del gruppo dirigente del PD gli ha consegnato  è servita a Silvio Berlusconi per una boccata di ossigeno. sicchè l’obbligato governo delle larghe intese non sembra destinato a darci rapidamente quello che serve per un “bipolarismo gentile” dell’alternanza e con una legge elettorale semplice e chiara come quella che ha appena governato la recente tornata amministrativa. Il “problema Berlusconi” con le sue esigenze giudiziarie resta intatto. L’innovazione e la governabilità del paese non possono aspettarsi da quel lato nessuna disposizione benevola alla sintesi.  Il voto amministrativo, con la dimostrazione dell’inservibilità dei sondaggi nel perdurare di una astensione e una aleatorietà  molto alta nei comportamenti, ha incrinato i cori ottimistici sulla ripresa del centrodestra, concedendo al governo Letta un clima politico più sereno e meno nevrotico.

E vengo al PD. Paradossalmente le carte migliori, per un’altra Italia, finalmente sburocratizzata, ammodernata, innovata nella Costituzione e nella forma della governance, ce le ha il PD. Proprio quel partito depresso, che ha consumato l’autodafè di un gruppo dirigente che dalla sua tradizione, non avendo più visione, ha ereditato solo le parte oscura  della conservazione di se stesso. La forza del nuovo PD è la presenza in campo, contemporaneamente al persistere degli zombie,  di una leadership reale, dinamica, appassionante, che aggrega, ed è potenzialmente maggioritaria. L’ultimo voto sta a dimostrarlo con una costanza, dal 2011, che solo la protervia di politici incapaci o resi ciechi da ideologie obsolete, riesce a non vedere.

Debora Serracchiani ha ironicamente chiosato il risultato sostenendo che si vince nonostante i problemi del PD. Molto di vero c’è in questo paradosso e bisogna farci i conti al congresso:  il PD è dentro il  popolo italiano.  Plurale, radicato, meticcio, costituzionale, solidaristico, pragmaticamente laico e legalitario; amministra da sempre migliaia di comuni grandi e piccoli: non ha nei suoi elettori, come aveva intuito il Lingotto, la rigidità e i difetti delle nomenclature originarie. La stragrande maggioranza di questo elettorato, pur segnato pesantemente dall’insulto di una nomenclatura incapace - che ha prodotto, è bene non dimenticarlo,  un’ulteriore fuga verso l’astensione di quattro/cinquecentomila elettori delle politiche - ha creduto al governo del proprio territorio, ha votato i suoi rappresentanti.

Quale PD deve sopravvivere o rivivere?

- Un PD senza soldi pubblici intanto. E, badate bene, è veramente una rivoluzione che cambia completamente il rapporto tra i cittadini che decidono di aderirvi sulla base di una scelta del campo di valori laici, costituzionali, di libertà e solidarietà e di selezione meritocratica  della rappresentanza. La fine dei tesorieri centrali e correntizi e l’avvento della trasparenza totale delle contribuzioni militanti e private cambiano  radicalmente la natura di un partito. Il denaro rende disuguali le persone e i progetti. Non la meno troppo lunga su questo aspetto: la cronaca degli ultimi venti anni è ricca di esempi di disinvolto e illegale uso del denaro pubblico per alimentare le proprie personali prospettive di carriera politica. Dopo Greganti e Citaristi è finita  la stagione dei fundraiser di partito ed è dilagata quella  dei conti personali.

- Un PD centro studi che selezioni i progetti, le donne e gli  uomini migliori e competenti,  per l’amministrazione della cosa pubblica  sottoponendoli costantemente al vaglio dei suoi riferimenti sociali.

.- Un PD che promuova  la selezione di una classe dirigente nel tempo misurabile per dare prova di sé nell’azione di governo locale e nazionale, con un limite rigoroso dei mandati.

- Un PD che separi nettamente le responsabilità di partito da quelle istituzionali scegliendo con primarie aperte a tutti i cittadini la premiership.

- Un PD organizzato in tutte le forme varie e possibili che una comunità del XXI secolo riesce a   
   pensare

- Un PD che, nell’immediato, si faccia dunque vigoroso portatore del rinnovamento della Costituzione per un presidenzialismo alla francese che assicuri la governabilità essenziale
      per le sfide continentali.

martedì 30 aprile 2013

Non moriremo democristiani


Io lo capisco lo stato d’animo di tanti ex comunisti. Soprattutto della mia età ed educati dal PCI
a mettere al primo posto la Repubblica e l’unità nazionale. È anche il mio. Ascoltare orgogliosamente  la lezione magistrale di un riformista comunista  a un Parlamento mostratosi impotente non è bastato ad attenuare l’amarezza.  Ritrovarsi un governo di ministri in larghissima misura  di cultura e ispirazione democristiana, in una Italia depressa, frantumata e attraversata da grumi di odio insolubile, colora le giornate di un sottile smarrimento. Ci sta. E virilmente bisogna acconciarsi a questo passaggio.

Che è una necessità e non una nuova era.

Quello che sembra un destino fatale e beffardo è solo la forma che prende una transizione. L’inettitudine, sommata all’arroganza, di molti eredi di quella grande tradizione del PCI  ha determinato un risultato che appare come una gigantesca rivincita della balena bianca. Sono i muri di cinta costruiti dentro il PD, sin dalla sua fondazione, che ci hanno regalato questo risultato. Sono le mobilitazioni interne contro gli intrusi che hanno reso apparenti vincitori quelli che il popolo ha sanzionato con sei milioni di voti perduti. Sono le insopportabili sordità alla protesta popolare che hanno gonfiato di seguaci la violenza verbale del comico Grillo.

Sto per prendere la mia quarantatrentesima tessera. Vengo dal PCI ma neanche per un attimo ho sentito Matteo Renzi come un alieno dal mio PD. Al contrario, ho sentito quelli con le mie stesse radici parlare una lingua che mi era sì molto nota, ma vecchia, incomprensibile, inutilmente aspra e rabbiosa, anche quando si nascondeva dietro la bonomia del dialetto emiliano.

Possiamo tornare al Lingotto e andare oltre il Lingotto. Se guardiamo serenamente la verità di questi mesi e la lezione che ci consegnano. Soprattutto i milioni che si fanno partito per gli ideali costituzionali, per l’innovazione, per l’intelligenza e il merito, per la legalità e che non hanno progetti di carriere politiche. Democratici.Rigorosi però. Chi ha sbagliato politicamente deve farsi da parte. Almeno il tempo per dar prova di non voler perseverare. L’equilibrio di questa transizione è instabile  ma ci offre il tempo necessario per prepararci nel modo più giusto e, soprattutto, più netto per guadagnarci la Terza repubblica che vogliamo per i nostri figli e i nostri nipoti.

venerdì 26 aprile 2013

Lectio magistralis e nuovo PD per la Terza Repubblica



Il discorso del Napolitano furioso, il giorno del giuramento, è, per la sinistra italiana, l’epifania della ragione, la rivincita dura del riformismo nobile.  Per dirla con Hegel, come lo spirito aleggiava nella battaglia di Austerlitz, cosi l’astuzia della ragione ha trionfato nell’emiciclo di Montecitorio. A 88 anni, il giovane studente universitario che Amendola mise a guardia della stanza di Togliatti, nell’hotel Roma della Napoli liberata, ha pronunciato, davanti agli oltre 1000 rappresentanti del popolo, la più alta e vigorosa lezione politica. E non è un epilogo. È “il discorso” che non è mai stato pronunciato prima e che tanti comunisti italiani della mia età  hanno sempre atteso dal delfino di Giorgio Amendola.

Ed è una introduzione per una svolta politica radicale nel PD.

Lo dico soprattutto per i tanti giovani parlamentari eletti in questa legislatura dello stallo. Di fronte a loro sta l’urgenza di coniugare la fedeltà ai valori fondamentali di libertà, uguaglianza e solidarietà della nostra Carta costituzionale con la durezza del fare il possibile, scevri dalla frase inconcludente o, peggio, dall’estremismo infantile.

E lo dico a Matteo Renzi che più di tutti in questi mesi ha coagulato l’insofferenza di una generazione verso il politicismo delle oligarchie e la grettezza di una politica asfittica, senza anima, sempre alla rancorosa ricerca dello schmittiano nemico e perciò priva di empatia e compassione verso il proprio popolo. Il sindaco fiorentino, incarna, anche fisicamente, la passione, e la speranza della politica intesa come sfida che dà anche gioia - non tutte le macchine politiche gioiose sono destinate al fallimento -  percepite, nel confronto con i volti lividi e artificiali dei capipopolo contemporanei, come messaggio nuovo e attualissimo. E non certo risolvibile in una fiammata, in una contesa temporanea.

Il paese è stato sfiancato e frantumato nella propria coesione nazionale, degradato per la mancanza di cura che lo stato doveva assicurare e che questo stato, occupato dai vecchi partiti, si è limitato a dare a gruppi privilegiati e minoritari. Si è completamente consumato un patto politico e sociale e bisogna ridondarlo. Occorre un lavoro di lunga durata per cambiare questa Italia. Per questo gli innovatori hanno bisogno di un PD nuovo. Non basta, come io spesso ho reclamato, il ritorno allo spirito fondativo. Troppo è accaduto da quel lontano 2007, per pensare che si riaccenda un’alchimia virtuosa. Troppe le ossificazioni di grammatiche e stili per pensare che questi possano convivere ancora dentro un’unica cornice organizzativa e politica. Il PD nuovo, i suoi dirigenti e i suoi militanti devono costruire, a partire dalla rigorosa lettura da quello che è accaduto non dalle dimissioni di Walter Veltroni - dentro i partito, nelle istituzioni e nel paese – ma da oltre un ventennio,  le regole che fondano  la Terza Repubblica e danno alla nazione italiana la bussola e gli strumenti per navigare nel futuro del XXI secolo, dentro cambiamenti inediti che modificheranno,  equilibri geopolitici, egemonie e divisione internazionale del lavoro.

La terza Repubblica non può che essere presidenzialista, con un Presidente eletto come il Sindaco d’Italia, con una Camera dei deputati dove siano rappresentati proporzionalmente le opinioni politiche degli italiani per affrontare l’attività legislativa, con un Senato come Camera delle regioni e delle autonomia locali,  con una netta separazione del potere esecutivo da quello legislativo e giudiziario. Abbiamo bisogno, per tentare di mantenere il peso e ruolo che la la nostra intelligenza lavorativa e imprenditoriale  si è conquistata dal dopoguerra, di una governance legittimata direttamente dal popolo, non impiombata dalla pluralità delle diversità politiche nella propria azione di governo ma democraticamente temperata e capace di competere nella velocità delle decisioni che il processo di costruzione degli Stati Uniti d’Europa ci impone.

Quello che è avvenuto negli ultimi tre anni ci parla di un presidenzialismo che è già in qualche modo costituzione materiale: è nascita di cui il nuovo PD deve essere levatrice.

Cosa sarebbe accaduto se non avessimo avuto Giorgio Napolitano in gran parte del suo primo mandato? E di fronte allo stallo di posizioni inconciliabili tra di loro, nel Parlamento, cosa sarebbe accaduto al nostro sistema democratico senza il mandato bis al vecchio dirigente del PCI? E nel momento stesso del dibattito quirinalizio, quale era lo spirito che informava la pressione di strati ampi di opinione pubblica -  al netto della cinica strumentalizzazione grillina – intorno a figure qualitativamente alte della società civile, se non un volere irrompere dentro regole costituzionali che obbligavano ad altri e più mediati percorsi?

Si dirà che questo è accaduto per la eccezionalità della situazione politica creatasi con il tripolarismo parlamentare, ma questo rilievo non cambia la sostanza di quello che è avvenuto, anche perché in questi anni, nonostante le varie leggi elettorali non abbiamo assistito alla semplificazione del sistema partitico. Anzi.  Sia la storia francese che quella italiana ed europea stanno lì a dimostrare che le opinioni organizzate in partito si moltiplicano e non solo per interessi meramente corporativi. Ma anche in questo caso. Anche se la frantumazione partitica fosse esclusivamente corporativa, a maggior ragione dovremmo organizzarci per impedire che i possibili stalli affossino l’intero sistema paese.

Cosa dovremmo temere da un sistema presidenziale alla francese? Limitazione dei diritti del Parlamento? Limitazione del potere giudiziario? Non sembra che questo sia avvenuto – e sono ormai passati sessanta anni – in Francia. Anzi, lo spirito repubblicano ha sempre fatto argine all’insorgenza antisemitica, fascistica e xenofoba  che lì ha preceduto analoghi fenomeni
nostrani.  

La storia non fa salti ma quando una soluzione nuova è matura dentro la testa dei cittadini, ostacolarla diventa impossibile ed ha come effetto solo la semplificazione violenta e senza regole. Siamo di fronte a qualcosa di così esteso -  come è accaduto per l’odiato finanziamento pubblico dei partiti - che è vano esorcizzarlo con richiami a principi mostratisi nei fatti inetti o peggio con il richiamo, ancora una volta, al baubau  di Arcore, ritenuto immortale.

Partito nuovo, dunque, che si proponga di dare al Paese una nuova bussola. Un partito che ispiri e accompagni l’avvento di un nuovo personale politico democratico, dal profilo alto, competente, tecnico-scientifico, sperimentatosi nella soluzione dei problemi complessi, non nella demagogia e nella contemplazione della propria irriducibilità ideologica. Aperto, dunque, verso tutti, plurale, ma disciplinato nelle scelte e nelle decisioni, liberato dalle correnti, culturalmente autonomo dalle pressioni di poteri esterni. Non è il principio d’ordine che bisogna ricostituire, bensì quello di maggioranza omogenea. Deve valere, al proprio interno, per i gruppi dirigenti via via prevalenti, quella stessa vocazione maggioritaria che lo caratterizza all’esterno. L’introduzione delle primarie affianco ai congressi affida al vincitore la direzione e gli strumenti per realizzare i progetti sottoposti al voto, senza i condizionamenti dei perdenti. Al tempo stesso occorre tener separato il timone del partito da quello della premiership da individuare con le primarie.E questo deve valere sia nazionalmente che localmente, nel rispetto più rigoroso della legalità statutaria. Le pubbliche elezioni diventano il banco di prova. La sconfitta in esse obbliga al fisiologico ricambio.

sabato 20 aprile 2013

Democratici, sù la testa


Quello che è avvenuto in questi giorni nelle urne per l’elezione del Quirinale era inevitabile. Si sono concentrate in questa elezione - che non è mai stata facile neanche nel passato ma che oggi, ha assunto un peso specialissimo per la mutazione della nostra costituzione materiale – un groviglio di contraddizioni che il voto tripolare ha reso quasi inestricabile. L’errore principale sta nelle mancate fisiologiche dimissioni di Bersani dopo la non vittoria. Quelle dimissioni avrebbero avuto il pregio politico di chiarire agli italiani  che c’erano stati un bocciato, Berlusconi con una emorragia di sei milioni di voti, un rimandato, il PD con 3 milioni e novecentomila elettori che se ne erano andati  e un tumultuoso apparire di un movimento di protesta. Quelle dimissioni sarebbero state un potente e spontaneo segnale di ricevuto, avrebbero permesso a Giorgio Napolitano di fare un governo di scopo, di eleggere la Presidenza della Repubblica svincolandola dall’obbligo di garanzia di governi impossibili - larghe intesi e governi di minoranza – e riandare al voto.

Pierluigi Bersani, sostenuto dai suoi uomini più fedeli e da una cultura arrogante e settaria circolante purtroppo nel corpo correntizio  ed eccitata a dismisura nella competizione delle primarie, ha scelto una linea che in altri tempi si sarebbe definita semplicemente avventurista. Il risultato è un capolavoro di inettitudine politica che ha regalato entrambi i fianchi a Berlusconi e a Grillo. È possibile la guerra manovrata ma devi avere il controllo del tuo esercito. L’ex  comunista e con lui la cerchia più ristretta hanno immaginato che il PD fosse il PCI. Ma così non è e questa palese illusione è una colpa aggiuntiva. Per questo ho parlato di dimissioni fisiologiche: il Partito democratico, per la sua stessa fondazione  non può permettersi, pena la propria inattualità, gruppi dirigenti che procedano per cooptazione o puri rimaneggiamenti di fronte alle sconfitte elettorali. Non esiste  per il PD l’alibi della rivoluzione socialista  e della missione storica  che permetteva al centralismo democratico del PCI di assorbire le sconfitte lasciando sostanzialmente invariati i gruppi dirigenti. Nel PD si misurano la competenza e il talento politico nelle proposte per vincere le competizioni elettorali, come avviene in tutti i sistemi occidentali. Ma questo equivoco dura da troppo tempo. Almeno dal 1990. E non si scambi per rinnovamento la lotta dentro l’asse ereditario del PCI. Gli Occhetto, i D’Alema, i Fassino, i Veltroni, passavano la mano ma non cambiava la sostanza . Bersani paga, anche per i suoi limiti, la conclusione di una storia accelerata dalla crisi di credibilità che ha investito le oligarchie della seconda repubblica.

Ma il PD non è solo questa storia. Il PD ne contiene ora un’altra che si è affacciata prepotentemente con le primarie ed è quella più moderna, quella che parla la lingua del XXI secolo e non vuole chiedere ai suoi membri appartenenze ideologiche  ma solo passione, talento, competenze, merito e sperimentazioni misurabili. Per questo non bisogna fasciarsi la testa. Smettiamola con questa ipocrita retorica del bene comune che abbiamo sperimentato non esistere. L’unico bene comune apprezzabile è quello di politici preparati e giustamente ambiziosi che sappia mantenersi sempre una spanna più in basso del bene della cosa pubblica. In “questa spanna più in basso” si misura il valore del fare politica. E smettiamola anche - capisco che non sia facile perché di menti strutturate e abituate alla politica come scienza e non come spettacolo e clientela non è facile trovarne né in quelli che  la fanno nè in quelli che la commentano - di subire la pressione dei mi piace, dei tweet, dell’emotività adolescenziale di chi non ha alcuna educazione istituzionale. Il PD è un partito di massa presente e radicato tra la gente. Chi pensi che il cambio di questa classe dirigente ne  postuli la dissoluzione sbaglia i suoi calcoli. Un ricambio c’è. L’”astuzia della ragione” si serve anche degli errori e dei comportamenti smodati per farsi strada. E in queste ore quello che alcuni dei protagonisti si sono proposti di fare, i loro scopi individuali,  stanno determinando la più grande e drammatica epifania del nuovo che c’è e che invano si è tentato di soffocare. È un bene. E non conviene attardarsi con gli erranti in cattiva fede. Tracciamo una riga e separiamoci definitivamente.

Coraggio Democratici, sù la testa. Non regaliamo ai muscoli artificiosi del Cavaliere e agli insulti di Grillo una vittoria che non hanno e che dovranno sudarsi duramente.Non facciamoci condizionare  dalla miseria di commentatori e sostenitori mediatici più orridi delle oligarchie che li commissionano. Senza il PD, intanto,  non si elegge nessun Presidente della Repubblica. Ridiamoci una bussola ferma e riavviamo il ragionamento con il paese da dove è stato arrestato con la furbizia dolosa e il potere degli apparati ora scompaginati:  con un altro spirito, con un diverso entusiasmo e con la credibilità di chi ha mostrato coerenza e ostinazione.    

giovedì 18 aprile 2013

55 giorni giorni furono quelli del sequestro e dell’assassinio di Moro, 55 si avviano ad essere quelli nei quali è stato sequestrato un paese dentro scelte politiche sbagliate. Cerchiamo di liberarlo e non di ucciderlo.



Lo dico con gli ultimi sentimenti di solidarietà verso chi ha con me una storia comune: non ci avete capito niente, e siete in molti. I giudizi e le analisi di chi, a vario titolo, si è sentito parte e supporter di un gruppo dirigente, sono consultabili negli archivi dei giornali e sul web. Sono stati giudizi e analisi completamente sbagliati. La fisiologica presa d’atto, il 26 febbraio, è stata ignorata e si è perseverato in un errore che rischia di dissolvere il PD. E non viene nessun vantaggio alla repubblica da questa dissoluzione, anzi. C’è un PdL sempre più monocratico e ossessionato dai problemi giudiziari del suo padrone, con il quale non è pensabile nessuna collaborazione che non alimenti, a torto o a ragione,  disgusto dell’opinione pubblica. Sull’altro lato c’è un movimento senza democrazia interna, gonfiato dalla disperazione degli elettori, che gioca allo sfascio, utilizzando il narcisismo anticasta di vecchie e nuove mascherine e l’immaturità di una opinione pubblica mantenuta adolescente da un sistema dell’informazione – inossidabile nei suoi conflitti d’interesse proprietari -  tra i più corrivi tra quelli delle democrazie occidentali. Chi ha i capelli bianchi come me, non saprebbe spiegarsi altrimenti come un ottantenne della prima e seconda repubblica venga con grandi strepiti issato a simbolo del rinnovamento in antagonismo a un coevo
altrettanto castale. Capisco che questo sia il giochino tipico nel quale si è sempre distinto il radicalismo italiano - Giacinto Pannella  ci ha costruito un solido potere di interdizione e di contropartite – non capisco invece i ragionamenti di tanti giovani contemporanei se non con l’amara conclusione, appunto, della mancanza di cultura istituzionale e di superficiale emotività tutta mediaticamente costruita.

Non ci orientiamo e non troviamo soluzioni dinanzi  al problema che tutti abbiamo di fronte se l’analisi dello stato del paese non ci illumina.. Occorreva, dopo il disastro berlusconiano, un governo di lunga durata Affidabile, competente, certosino, equo socialmente, feroce nella riduzione di tutto il parassitismo burocratico e clientelare. Bersani e l’oligarchia sorda che lo circonda hanno immaginato di poter vincere le elezioni e governare l’Italia immaginando che la crisi del PdL li avrebbe favoriti oltre misura. Non hanno ascoltato Matteo Renzi e non si sono affidati a lui. Non solo perché nelle competizioni ognuno ha legittime differenti posizioni, ma soprattutto perché il sindaco fiorentino ha affermato qualcosa che nessuno prima di lui aveva osato affermare: badate che voi non siete la soluzione, voi siete, per gli italiani,  il problema, così come lo è Berlusconi.

Le elezioni gli hanno dato ragione. Gli italiani per la maggior parte hanno protestato con il vaffanculo grillino e con l’astensione, infilando il paese nelle sabbie mobili. Un gruppo dirigente
Non ossessionato dai propri personali destini, avrebbe passato la mano per permettere un governo di scopo, una riforma elettorale e il ritorno alle urne. Perché? Perché il paese ha bisogno di un vincitore certo per affrontare una  crisi che sarà di lunga durata  e non di una tomba tripolare con gli sberleffi di un comico sull’orlo del precipizio. Un vincitore certo – di centro destra o di centro sinistra non è questo il punto – che con il proprio oppositore concordi su una legislatura costituente che dia al paese un assetto istituzionale più moderno e capace di assicurare la governance anche a fronte di una grande pluralità di opinioni politiche.

La posta in gioco è questa, non altra. Allora questo aereo che si trova in stallo e può quindi avvitarsi irrimediabilmente per schiantarsi ha bisogno di piloti competenti che accompagnino questo passaggio, non la costruzione di maggioranze senza costrutto e stabilità come quelle irresponsabilmente evocate sia verso Berlusconi che verso Grillo.

Il PD deve darsi come candidato quello migliore e che unisce tutto il partito in questa prospettiva,  non blandire un’opinione pubblica resa vieppiù rabbiosa da 55 giorni ( sembrano quelli del sequestro Moro) gestiti senza intelligenza e senza trasparenza, abbandonando apertamente ogni idea di governo di lunga durata. 

lunedì 8 aprile 2013

Non serve un Midas al PD, ma un San Ginesio

Se qualcuno confida su un moto dal basso che indirizzi l’insieme del PD verso la ragionevolezza di un programma di emergenza e di un voto da tenersi tra estate ed autunno affidandosi – qualunque sia la legge elettorale – alla leadership di Matteo Renzi, nutre grandi illusioni.

Il parastato partitico del mondo della sinistra, dentro il quale è collocato ancora pesantemente il PD,  ha tutto da perdere dalla gigantesca cura dimagrante che devono fare gli istituti di rappresentanza, gli enti intermedi, tutte le sinecura inventate per sistemare capibastone territoriali, regionali, comunali, circoscrizionali. Certo circola ancora molta nostalgia ideologica,  ma è  strumentazione  polemica per nascondere  la sostanza:  gli interessi, le carriere di una miriadi di mestieranti partitici. Le nomine nelle migliaia di enti comunali, provinciali, regionali  e  i bilanci di piccole e grandi coop beneficiati da una spesa pubblica facile e dalla magnanimità delle licenze della grande distribuzione.

Per questo non appare buffo che un signore non iscritto al PD si presenti per candidarsi alla sua guida. Quella roba di cui parlavo prima lo ha già annusato ed è pronta a farlo vincere “democraticamente” nei congressi. Ma se fosse questo il disegno, cioè l’ennesimo rimpannucciamento intorno alla ditta il disastro generale per il centrosinistra sarebbe irreversibile.  

Il Paese, al di là di mirate, brevi e finanziariamente autosufficienti politiche espansive deve “risputare “ tutto quello che ha ingoiato di surplus legato alla dissipazione del denaro pubblico per cementare consenso e deve dotarsi di un nuovo sistema di govenance scegliendo un modello istituzionale più consono alle sfide che l'Europa unita richiede.  Chiunque governi. Allora la questione decisiva, rispetto all’emergenza politico sociale italiana è se gli eredi più intelligenti dell’ex PCI, pur senza l’autodafè dello streaming bersaniano grillino, abbiano un soprassalto autocritico e dimostrino compassione per l’Italia. Non è un Midas quello che serve, ma un San Ginesio. Nel bene e nel male ancora una volta è Massimo D’Alema che ha le carte che servono a un processo unitario e non scissionistico.

venerdì 29 marzo 2013

Un congresso straordinario subito



Noi siamo il risultato, non la causa. In queste poche parole pronunciate dal capogruppo grillino al Senato c’è l’analisi più precisa è inconfutabile del voto che ci ha consegnato questo micidiale impasse politico. C’è anche l’indicazione della via maestra che avrebbe dovuto  seguire il PD.
Il candidato premier che ha vinto le primarie e non è riuscito a conseguire una maggioranza autosufficiente ha avuto molto tempo per valutare la situazione politica e trarne le necessarie e fisiologiche conseguenze. Partendo innanzitutto da un punto, per il PD e per lui – a torto o a ragione – invalicabile: l’impossibile alleanza con il PDL e con la Lega. Tolta di mezzo “la grande coalizione”, Bersani non ha giudicato l’exploit del M5S come gli stessi beneficati hanno fatto - Noi siamo il risultato e non la causa -  ma si è affrettato, ahinoi, a considerarlo interlocutore politico tradizionale, sia pure novissimo. E quindi ha puntato sul M5s la propria strategia per formare un governo e per non trarre subito l’unica conseguenza politica possibile dal voto: le proprie dimissioni.

Quell’atto allora avrebbe chiarito più di ogni altro che gli sconfitti, in modi e con perdite di consenso diversi, erano lui e Berlusconi, imputati dal popolo italiano di responsabilità simili anche se non identiche.  Avrebbe confermato orgoglio e dignità del proprio partito che ha dentro risorse  nuove e non coinvolgibili nel tutti a casa, avrebbe consegnato le redini al Presidente della Repubblica per costruire un percorso di breve momento per l’emergenza e per riportare il paese al voto nella chiarezza senza che gli apprendisti stregoni del tanto peggio tanto meglio potessero speculare sulle ammucchiate della casta. Invece si è scelta un’altra strada che ha procurato in un mese non pochi danni alla credibilità delle istituzioni, attraverso il corteggiamento insensato di Grillo e Casaleggio .

In questi giorni, poi,  nell’autodafè dello streaming, ha addirittura definito il suo beffardo e offensivo interlocutore come una grande forza, che merita rispetto. Come possa suscitare simili considerazione una formazione democraticamente opaca ed esplicitamente eversiva lo sa solo Giove. E quanto questo giudizio confonda ancora di più i cittadini italiani e danneggi nella prospettiva prossima  lo stesso PD è del tutto evidente. 

Nel frattempo si sbriciola  tutto: un intero gruppo parlamentare invade minaccioso gli uffici dei magistrati inquirenti e giudicanti oltraggiando l’indipendenza di un potere dello Stato;  un ministro degli esteri da operetta, con interessi di carriera ancora oscuri ma indubitabilmente costruiti sulla pelle di due militari italiani, butta alle ortiche in diretta parlamentare, decoro delle istituzioni, forma e lealtà politica al suo primo ministro; un assessore alla cultura di una grande regione, in trasferta a Bruxelles, dipinge il parlamento italiano come un lupanare; un sindacato di polizia scende in piazza per manifestare contro una sentenza,   oltraggiando una madre il cui figlio è morto in seguito alle violenze dei colleghi condannati; la crsi economica sfianca i più deboli e li consegna inermi ad ogni populismo. A Roma, un partito senza governo e senza una idea si abbandona all’orgia delle primarie con l’assalto ai municipi che dovrebbero, nella loro pletoricità assembleare e inetta , essere oggetto di cancellazione così come si auspica per le province.

C’è da reagire a tutto questo. Prendere atto sobriamente che un gruppo dirigente ha sbagliato. Sbagliato gravemente sì, perchè si è ostinato a non ascoltare e a non leggere i messaggi che venivano con nettezza dai cittadini, strumentalizzando i quali due parvenu della politica come Grillo e .Casaleggio hanno raccolto il consenso di un terzo degli italiani.  Prima si fa un congresso per definire se è ancora valida l’ispirazione del Lingotto e si fanno le scelte conseguenti e meglio è per il paese e per quanti non vogliono starsene con le mani in mano a guardare  non l’agonia della seconda repubblica ma l’involuzione della democrazia.      

giovedì 28 marzo 2013

Una nuova religione


Sciopero generale. Quelli della mia generazione si ricordano quanto fosse forte e drammatica l’indizione di uno sciopero generale. Tutti sapevano, nonostante le formali obiezioni e giustificazioni sul carattere non politico di una simile forma di lotta, quanto peso avesse il simultaneo e generalizzato incrociare le braccia di chi produceva la ricchezza del paese.

Di fronte allo sfascio generale sembrerebbe più che necessaria la protesta di chi lavora e subisce più di ogni altro i colpi della crisi. Ma chi ha il potere di convocarlo uno sciopero generale? Nessuno più. Solo corporative convocazioni di rabbia a reclamare soluzioni prive di disegno e visione.

Incapaci di imporre nel momento della verità l’unica parola unificante degli occupati e dei disoccupati dentro l’austerità obbligata - l’equità , perché i duemila miliardi di debito pubblico sono finiti nelle tasche di tutti ma ci sono state  tasche che ne hanno beneficato in modo spropositato - i sindacati hanno preferito arroccarsi nella difesa ideologica di condizioni di mercato che non esistono e non esisteranno mai più. Hanno preferito chiamarsi fuori, non firmare compromessi, demonizzare finanza e globalizzazione, hanno smesso di studiare e lottare, proporre soluzioni condivise. Si sono ritratti a difesa di un tabernacolo custode di dogmi polverosi. Si sono rifugiati dentro  trasmissioni televisive con i loro corrivi cantori populisti, i loro comici, i loro disegnatori satirici, i loro cantanti, i loro magistrati, hanno persino incensato le pause di un cervello vuoto spacciato per riflessione alta. Hanno abdicato alla loro funzione storica. E in queste difficili ore della Repubblica o balbettano o tacciono privi di parole religiose. Per loro parlano avventurieri, cantori rabbiosi quanto insensati, falliti in ogni responsabilità pubblica. Non so se ne usciremo, da questa follia faziosa e incompetente, o meglio, se ne usciremo mantenendo intatte le conquiste dei nostri padri resistenziali. Certo è che si avvicina velocemente il tempo di una nuova religione.

PS Pleonastico aggiungere che i termini religioso, religione, sono qui usati nel senso etimologico di ciò che ci unisce nella con/passione.

venerdì 18 gennaio 2013

Ma è proprio vero che siamo rassicuranti?



Quando le colpe sono solo dei Tartari ti chiudi nel fortino e consoli  e rassicuri i tuoi con l’attesa inutile di una palingenesi. Lotta all’inflazione e politiche della sicurezza sono i due tratti che contraddistinguono una forza autenticamente popolare. Lo ripeteva spesso Giorgio Amendola polemizzando con quelli che in economia arzigogolavano sulla irriformabilità del modello capitalistico e quelli, quasi sempre gli stessi, comprensivi, nella giustificazione sociale, della diffusione della micro criminalità. Sono passati 35 anni dal dibattito sulle politiche di rigore e dell’ordine democratico della seconda metà degli anni settanta, e siamo ancora a dividerci esattamente sulle stesse cose. Ed è esattamente per questo che quel terzo di elettorato di sinistra
è rimasto lo stesso, senza valicare i suoi recinti e diventare persuasivo della maggioranza degli italiani. Fa dunque una notevole impressione vedere come rapidamente si gettino a mare, svalutandoli, dodici mesi di rigore montiano. Si badi bene, non una ricetta liberista qualunque - come si dice a ogni piè sospinto -  ma l’onesto riconoscimento – che dovrebbe prescinder dai destini personali di Monti -  che alla crisi degli equilibri economici e finanziari mondiali, si aggiunge in Italia una specificità dovuta a una trentennale e sfrenata spesa pubblica che ha impiombato l’ottavo paese industrializzato a una decennale non crescita. Mentre l’enorme metastasi burocratica e corruttiva  e la moltiplicazione inusitata di livelli di rappresentatività pletorica hanno reso ancora più lento e inadeguato il potere di decisione e di scelta dell’intero sistema. Di entrambi i fenomeni le responsabilità sono condivise da tutti e non serve consolarsi sulle differenze percentuali. Colpiscono, così, paradossalmente,  le analogie e gli approdi del pensiero strutturato di Fassina e di quello illogico di Berlusconi: i mali vengono dall’estero, da circoli opachi alla Bildeberg che nello stivale s’incarnano poi nella massoneria di qualunque rito, nei circoli dei Rotary e dei Lion’s. Per Berlusconi c’è un complotto internazionale che gli ha impedito di governare per venti anni, per Fassina  c’è il liberismo mondiale ed europeo che bisogna  ribaltare – tema sicuramente all’ordine del giorno -  mentre in Italia è sufficiente un po’ di deficit spending e inflazione controllata - povero Amendola senza  più Pantheon! Hai voglia a convocare Dell’Aringa e Mucchetti se il tuo corpo militante, quello che dialoga con i cittadini da conquistare a cinque anni di ulteriore e più ampio rigore , si nutre di simili semplificazioni ottocentesche. A questa dicotomia del pensarla in un modo ai vertici e praticare l’embrassons nous alla base abbiamo sempre pagato un prezzo nelle ore cruciali di possibile svolta. Sta accadendo anche questa volta. E se ti provi a dirlo sei disfattista .

Altrettanto paradossale trovo, a parte il tradizionale e quasi liturgico accenno all’esigenza di lottare contro le mafie, l’assenza nei ragionamenti del nostro candidato premier, di riferimenti forti alla necessità di restituire sicurezza all’ambiente di vita, pesantemente e giornalmente assediata nei grandi centri urbani, come nei piccoli, da una microcriminalità che aggredisce nelle strade, nei supermercati, nelle scuole, negli ospedali, al ritorno dagli uffici postali e, se finalmente, sembra crescere l’allarme sulla violenza contro le donne, sempre più sfocati e sottovalutati appaiono quei i piccoli delitti che condizionano pesantemente la libertà di ciascuno. E che dire della diffusione  di alcool tra i giovani e la moltiplicazione inusitata fino ai livelli del consumo alimentare dei giochi d’azzardo  di stato? Anche in questo ambito siamo a livelli e caratteristiche del tutto specifiche italiane. E siccome non c’è un estero maligno, se non in qualche paese sudamericano e del far east asiatico, semplicemente stendiamo un velo e non parliamo di quello che invece preoccupa milioni di nostre famiglie. Chissà, magari, via via che la contesa si fa più dura, si troverà il modo di correggere prima di dover rincorrere qualcun altro.