Il calcio, si sa, oltre ai
sentimenti degli appassionati, muove tante altre cose, soprattutto economico-finanziarie.
Siamo in questo a una svolta strutturale. Bilanci sani, stadi di proprietà,
ridefinizione delle remunerazioni. In Italia alcuni club si stanno comportando
meglio di quelli europei, peccato che l’azione di governo (sia locale che
nazionale) non accompagni con misure incisive quest’azione di risanamento. Tra
l’altro mettere in cantiere la costruzione di quattro/cinque grandi stadi
darebbe fiato a tante imprese piccole e medie dell’edilizia e del suo indotto.
Oltre a cogliere un’occasione di riqualificazione di aree urbane e
metropolitane. Si preferisce, invece, attizzare le polemiche, costruire polveroni,
lisciare il pelo agli ultras. C’è bisogno di svecchiamento e di sburocratizzazione
delle istituzioni specifiche del calcio e dello sport. Qualcosa si muove ma con
eccessiva lentezza. Torino e Roma, al netto delle immaturità di frange di
tifosi, stanno meglio di Milano, dove una squadra è ancora prigioniera del
conflitto di interesse del padrone e l’altra sta per passare di proprietà e non
è chiaro se questa si muoverà nel rispetto del fair play finanziario o se
replicherà i difetti dei paperoni russi, arabi o spagnoli, con grave danno per
il rigore nazionale. Il Napoli, liberatosi del provincialismo vittimista di Mazzarri
e avendo investito intelligentemente la plusvalenza del mercato, può ritrovare
una stabilità nei livelli alti ed è un’ottima notizia. «Siamo ciò che facciamo
ripetutamente. L’eccellenza non è un atto, ma un’abitudine» Diceva
Aristotele. Al Napoli questo è mancato ma Benitez è l’uomo giusto per radicare
questa abitudine e non farsi risucchiare dall’interessato e plebeo vittimismo meridionale. Roma e Fiorentina sono due splendide realtà
destinate a crescere quanto più i propri manager sapranno rendere impermeabile i
rispettivi spogliatoi alle interferenze delle tifoserie, vera croce e delizia
di questi club. Insomma ci sarebbero le condizioni per riprendersi l’eccellenza
in Europa investendo, fuor di chiacchiera e retorica, in giovani, collettivo e sudore. Il 2014 è l’anno
dei mondiali in Brasile. Ci siamo già qualificati. Il mio sogno è di arrivarci
con una Italia cambiata nei vertici. In tutti i vertici. Un’Italia dimezzata
nella sua burocrazia gerontocratica e rallentatrice, liberata dalle vecchie
figurine del Novecento. Aggiungo un sogno che mi perseguita: un’Italia che
costituisca l’Ente nazionale rifiuti, togliendo quella che è una risorsa moderna
alla rete criminogena degli interessi e delle incompetenze particolari ed affidandola
alle soluzioni della Scienza e della Tecnica. È il mio personale bandolo della
matassa…
venerdì 20 settembre 2013
martedì 13 agosto 2013
I "misuratori dello spessore" di Matteo Renzi
Una onesta analisi dei fatti, libera da interessi particolari, di fazione, di corrente o di corporazione, che non vi sovrappone, dunque, aspettative cariche di difese ideologiche o di privilegiate posizioni di rendita, sibbene mira alla sostanza della domanda principe, chi sia il più adeguato politicamente a conservare e innovare, non può che portarci a considerare con grande simpatia Matteo Renzi.
I sondaggi, da quasi due anni, lo danno in testa alle classifiche di gradimento dell’opinione pubblica con livelli tali - massime se comparati con Silvio Berlusconi e Beppe Grillo - che è evidente come il giovane politico fiorentino sia percepito allo stesso tempo portatore di una vis destruens e di una vis construens. Vale a dire che il suo messaggio politico possiede entrambi i corni che determinano insieme, nel nostro paese, un largo consenso, interclassista e generazionale.
La stessa onesta interpretazione dei fatti ci fa dire che proprio per questo, nelle passate elezioni - di fronte a un gruppo dirigente democrat mostratosi scarsamente lungimirante, poco aderente agli umori dei cittadini e fondamentalmente conservatore nello sbarrare il passo al giovane contendente le primarie - l’elettorato si è tripolarizzato. Beppe Grillo è il destruens per eccellenza, Silvio Berlusconi la delusione reiterata di rivoluzioni liberali mancate, Pierluigi Bersani il simbolo di un consociativismo almeno corresponsabile della cattiva amministrazione della cosa pubblica. Il risultato elettorale ha così prodotto lo stallo che conosciamo, obbligato Giorgio Napolitano ad accettare il secondo mandato, Enrico Letta a guidare un governo di larghe intese per un programma minimo. Nei primi cento giorni l'esecutivo non è apparso fondarsi su un programma anticipatore del minimo comun denominatore delle principali forze politiche, bensì su un prolungato braccio di ferro in chiave elettorale, con modalità che nessuno dei due principali leader del Pdl e del PD, profondamente ammaccati e feriti, appaiono in grado di definire, nonostante il pregiudiziale richiamo del Presidente della Repubblica. Un congresso libero e aperto del PD sembrerebbe l’unico passaggio efficiente per sbloccare questa situazione. Sono convinto che, nonostante in molti stiano spendendo le loro inesauste energie per disperdere l’ennesima occasione di svolta, l’assise politica dei democratici si farà incoronando leader Matteo Renzi.
In questa prospettiva che mi appare avere dalla sua la forza potente delle cose, si stanno levando,da destra, dal centro e dalla sinistra, i “misuratori dello spessore” del prossimo leader democratico. Cosa significhi “avere spessore” quando la domanda riguardi un politico vincente tra i suoi e nell’elettorato, è qualcosa che ha a che fare con le pretese mediatiche di lobby assurte a katechon, al potere che frena, direbbe il filosofo. Lo spessore di un politico , se vogliamo restare fedeli a questa terminologia, lo misurano il consenso e l'entusiasmo in grado di determinare. L'efficacia, una volta eletto, la dimostrerà l'azione di governo. Se poi con spessore si volesse intendere altro di specialistico, di accademico, di lungo corso burocratico, di titoli ed esami, staremmo, nella morente seconda repubblica, sfidando il ridicolo di fronte alle ripetute magre figure di conclamati e venerati "spessori". Tuttavia essendo da molti anni scomparsi quei pochi grandi commentatori che separavano i fatti dalle opinioni, per misurare lo spessore di qualcuno bisognerebbe esserne dotati e, soprattutto, certificati. Non mi sembra questo il caso di questi sussiegosi chiosatori.
La stessa onesta interpretazione dei fatti ci fa dire che proprio per questo, nelle passate elezioni - di fronte a un gruppo dirigente democrat mostratosi scarsamente lungimirante, poco aderente agli umori dei cittadini e fondamentalmente conservatore nello sbarrare il passo al giovane contendente le primarie - l’elettorato si è tripolarizzato. Beppe Grillo è il destruens per eccellenza, Silvio Berlusconi la delusione reiterata di rivoluzioni liberali mancate, Pierluigi Bersani il simbolo di un consociativismo almeno corresponsabile della cattiva amministrazione della cosa pubblica. Il risultato elettorale ha così prodotto lo stallo che conosciamo, obbligato Giorgio Napolitano ad accettare il secondo mandato, Enrico Letta a guidare un governo di larghe intese per un programma minimo. Nei primi cento giorni l'esecutivo non è apparso fondarsi su un programma anticipatore del minimo comun denominatore delle principali forze politiche, bensì su un prolungato braccio di ferro in chiave elettorale, con modalità che nessuno dei due principali leader del Pdl e del PD, profondamente ammaccati e feriti, appaiono in grado di definire, nonostante il pregiudiziale richiamo del Presidente della Repubblica. Un congresso libero e aperto del PD sembrerebbe l’unico passaggio efficiente per sbloccare questa situazione. Sono convinto che, nonostante in molti stiano spendendo le loro inesauste energie per disperdere l’ennesima occasione di svolta, l’assise politica dei democratici si farà incoronando leader Matteo Renzi.
In questa prospettiva che mi appare avere dalla sua la forza potente delle cose, si stanno levando,da destra, dal centro e dalla sinistra, i “misuratori dello spessore” del prossimo leader democratico. Cosa significhi “avere spessore” quando la domanda riguardi un politico vincente tra i suoi e nell’elettorato, è qualcosa che ha a che fare con le pretese mediatiche di lobby assurte a katechon, al potere che frena, direbbe il filosofo. Lo spessore di un politico , se vogliamo restare fedeli a questa terminologia, lo misurano il consenso e l'entusiasmo in grado di determinare. L'efficacia, una volta eletto, la dimostrerà l'azione di governo. Se poi con spessore si volesse intendere altro di specialistico, di accademico, di lungo corso burocratico, di titoli ed esami, staremmo, nella morente seconda repubblica, sfidando il ridicolo di fronte alle ripetute magre figure di conclamati e venerati "spessori". Tuttavia essendo da molti anni scomparsi quei pochi grandi commentatori che separavano i fatti dalle opinioni, per misurare lo spessore di qualcuno bisognerebbe esserne dotati e, soprattutto, certificati. Non mi sembra questo il caso di questi sussiegosi chiosatori.
venerdì 5 luglio 2013
giovedì 4 luglio 2013
Giaccherigno
Siamo degli insopportabili provinciali. Incapaci di guardare al fondo di noi stessi come popolo. Pronti ad esaltare sempre gli altri, Arriviamo persino ad essere razzisti verso noi stessi. Forse perché siamo i più vecchi e imbastardi del mediterraneo e dunque della storia della civiltà. Bruciati dai Vandali, impalati dai Saraceni, impestati dai Lanzichenecchi, ci siamo fatti furbi e cinici per sopravvivere. Caritatevoli per battesimo continuiamo a schiamazzare e a vociare su un bagnasciuga incuranti di un povero morto. Abbiamo costruito i comuni e le città più belle grazie al sudore e alla maestria geniale degli artigiani e corriamo compulsivi appresso ad ogni moda effimera. Nel gioco del calcio diamo il meglio e il peggio di noi stessi. Sia nel parlarne che nel praticarlo. E pure rappresentiamo, in questo che è il gioco più amato del mondo, una scuola tra le più vincenti. E, bisogna dirlo, il calcio, oltre ad essere un grande produttore di fatturato è anche un potentissimo veicolo comunicativo. Ma nel nostro calcio - come d’altronde nella nostra poltica - soffriamo di strabismo e di superficialità.
Mercoledì scorso si sono giocate in Brasile due partite decisive della Coppa delle federazioni. Brasile vs Messico e Giappone vs Italia. Cena leggera, sigarette e acqua minerale ghiacciata. In calzoncini e maglietta mi sono seduto nella mia nuova poltrona e non ne ho perso un minuto, commenti compresi. I Carioca hanno battuto i messicani due a zero, gli Azzurri hanno sconfitto i Bianchi del sol levante quattro a tre. Il primo incontro è stato di una noia mortale. Messicani gran palleggiatori fino ai venticinque metri ma dimentichi che il pallone va alla fine indirizzato verso la porta. Brasiliani che affidavano con lanci lunghi le loro sorti al nuovo re del mercato mondiale, il ventunenne Neymar. Suo il primo gol e suo il merito del secondo. Un tiro al volo da dentro l’area e un assist dopo un tunnel e una serpentina tra due difensori immobili. Durante la partita ho osservato questo nuovo eroe brasiliano lasciarsi cadere più volte al minimo contatto con una capacità recitativa del dolore pari alle sue indubbie doti tecniche. I commenti dei vari esperti assemblati nei vari network hanno raggiunto il diapason della glorificazione. Al punto che mi sono chiesto se avessi assistito ad un’altra partita. La mia indignazione si è interrotta con gli inni nazionali dell’incontro più atteso.
Due panchine dirette da due allenatori entrambi italiani. Allenatori coscienziosi, seri, di scuola italica appunto. Si è visto subito che la nostra compassata portaerei non ce la faceva a reggere l’assalto martellante e indemoniato di una squadriglia di kamikaze. Nei venticinque minuti iniziali differenza di corsa e aggressività ma anche errori tattici. Ai secondi il nostro Prandelli ha rimediato con un cambio immediato, ai primi, viste le scorie accumulatesi nelle gambe dei nostri reduci dal campionato e dalle coppe, non c’era modo di rimediare se non con lo stringere i denti e sputare i polmoni. Due a zero a favore dei nipponici in poco più di trenta minuti. Roba da schiantarsi. Ma la reazione c’è stata . A guidarla non è stato un dominatore dei mercati, né un re del gossip pallonaro, ma un giovanotto piuttosto da libro Cuore, pedatore di lunga gavetta, maestro del dà e vai, corridore che quando entra in area, dopo una corsa sfianca polmoni, insacca la testa tra le spalle come una testuggine per succhiare l’ultimo ossigeno e concentrarlo nel tiro. Giaccherigno, come lo ha orgogliosamente ( e polemicamente) ribattezzato Antonio Conte, l’allenatore vincente che lo ha preso dal Cesena. Già, Giaccherini brasiliano, che salta l’uomo pestando la linea di fondo, che fa l’assist e si inserisce e tira. Che ha mai fatto Neymar più del toscano ieri sera.? Quel dribbling bruciante in area e il tiro secco che s’è stampato sul palo? E la magia della palla ripresa sgusciando dietro la schiena dell’incredulo difensore giapponese e il traversone teso e violento che obbliga all’autorete? In una partita guerreggiata all’ultimo sorso di energia nell’apnea del Pernambuco, Giaccherini è stato il vero eroe dello storico, tanto insperato quanto cabalistico quattro a tre. Eppure i facitori dell’opinione sportiva, ormai competenti di calcio meno dei frequentatori di un bar del lunedì, hanno decretato che il sondaggio dei migliori riguardasse i due narcisi destinati già nei commenti precoppa a segnare il torneo. Lo strapagato e volubile numero 10 carioca e il nostro muscoloso e irritabile 9. Ma noi che viviamo l’Italia con occhi più compassionevoli, abbiamo sofferto e partecipato per un’altra partita. E ce la teniamo stretta assieme alle immagini del nostro umanamente immenso numero 22
Mercoledì scorso si sono giocate in Brasile due partite decisive della Coppa delle federazioni. Brasile vs Messico e Giappone vs Italia. Cena leggera, sigarette e acqua minerale ghiacciata. In calzoncini e maglietta mi sono seduto nella mia nuova poltrona e non ne ho perso un minuto, commenti compresi. I Carioca hanno battuto i messicani due a zero, gli Azzurri hanno sconfitto i Bianchi del sol levante quattro a tre. Il primo incontro è stato di una noia mortale. Messicani gran palleggiatori fino ai venticinque metri ma dimentichi che il pallone va alla fine indirizzato verso la porta. Brasiliani che affidavano con lanci lunghi le loro sorti al nuovo re del mercato mondiale, il ventunenne Neymar. Suo il primo gol e suo il merito del secondo. Un tiro al volo da dentro l’area e un assist dopo un tunnel e una serpentina tra due difensori immobili. Durante la partita ho osservato questo nuovo eroe brasiliano lasciarsi cadere più volte al minimo contatto con una capacità recitativa del dolore pari alle sue indubbie doti tecniche. I commenti dei vari esperti assemblati nei vari network hanno raggiunto il diapason della glorificazione. Al punto che mi sono chiesto se avessi assistito ad un’altra partita. La mia indignazione si è interrotta con gli inni nazionali dell’incontro più atteso.
Due panchine dirette da due allenatori entrambi italiani. Allenatori coscienziosi, seri, di scuola italica appunto. Si è visto subito che la nostra compassata portaerei non ce la faceva a reggere l’assalto martellante e indemoniato di una squadriglia di kamikaze. Nei venticinque minuti iniziali differenza di corsa e aggressività ma anche errori tattici. Ai secondi il nostro Prandelli ha rimediato con un cambio immediato, ai primi, viste le scorie accumulatesi nelle gambe dei nostri reduci dal campionato e dalle coppe, non c’era modo di rimediare se non con lo stringere i denti e sputare i polmoni. Due a zero a favore dei nipponici in poco più di trenta minuti. Roba da schiantarsi. Ma la reazione c’è stata . A guidarla non è stato un dominatore dei mercati, né un re del gossip pallonaro, ma un giovanotto piuttosto da libro Cuore, pedatore di lunga gavetta, maestro del dà e vai, corridore che quando entra in area, dopo una corsa sfianca polmoni, insacca la testa tra le spalle come una testuggine per succhiare l’ultimo ossigeno e concentrarlo nel tiro. Giaccherigno, come lo ha orgogliosamente ( e polemicamente) ribattezzato Antonio Conte, l’allenatore vincente che lo ha preso dal Cesena. Già, Giaccherini brasiliano, che salta l’uomo pestando la linea di fondo, che fa l’assist e si inserisce e tira. Che ha mai fatto Neymar più del toscano ieri sera.? Quel dribbling bruciante in area e il tiro secco che s’è stampato sul palo? E la magia della palla ripresa sgusciando dietro la schiena dell’incredulo difensore giapponese e il traversone teso e violento che obbliga all’autorete? In una partita guerreggiata all’ultimo sorso di energia nell’apnea del Pernambuco, Giaccherini è stato il vero eroe dello storico, tanto insperato quanto cabalistico quattro a tre. Eppure i facitori dell’opinione sportiva, ormai competenti di calcio meno dei frequentatori di un bar del lunedì, hanno decretato che il sondaggio dei migliori riguardasse i due narcisi destinati già nei commenti precoppa a segnare il torneo. Lo strapagato e volubile numero 10 carioca e il nostro muscoloso e irritabile 9. Ma noi che viviamo l’Italia con occhi più compassionevoli, abbiamo sofferto e partecipato per un’altra partita. E ce la teniamo stretta assieme alle immagini del nostro umanamente immenso numero 22
Top player? No, The Artist
I piedi di Paul Pogba, non affondano nell’erba del prato verde, come quelli di tutti gli altri pedatori di football. Il watusso bianconero, come tutti i cacciatori degli altipiani della sua razza, corre leggero su cuscinetti d’aria. Avanza a testa dritta; caracolla quasi indolente, scarta, gira su se stesso e continua a danzare con il pallone legato da un invisibile elastico alla sua sottile caviglia di fondista. Passa la palla in corsa e staziona visibile e raggiungibile per soccorrere il compagno triangolatore. Se deve recuperare il pallone sfuggito le sue leve disegnano archi improbabili e i suoi piedi si fanno prensili per riprendersi il maltolto e ripartire. Solo quando decide di beffare ai 25 metri l’estremo difensore avversario, solo allora, i tacchetti del suo scarpino colorato, in appoggio, perforano il sostegno impalpabile che li sorregge leggero per affondare sulla zolla del campo a caricarsi dell’energia per disegnare la parabola imprendibile. Il tifoso bianconero, che per la prima volta lo ha visto apparire nel campo nobile e familiare di Villar Perosa, complice un destino beffardo e lungimirante che lo ha sottratto alle cure del, buon per noi, troppo temporeggiatore Ferguson, ha finalmente, lì dove i passaggi banali si tramutano in illuminazione artistica, l’interprete di un lungo tratto di futura gloria e di gigantomachie. Paul Pogba. Nella sequenza onomatopeica delle due P, intervallate da un attimo impercettibile di sospensione, c’è l’esplosione ripetuta - Pum, pam - che nei fumetti che ancora amiamo accompagna l’eroe vendicatore di torti nel duello finale.
Top player? No, The Artist, e per noi italiani figli del Rinascimento è il massimo.
Top player? No, The Artist, e per noi italiani figli del Rinascimento è il massimo.
martedì 25 giugno 2013
Lasciate che i morti seppelliscano i loro morti
Il cavaliere Silvio Berlusconi è
stato condannato a sette anni e all’interdizione perpetua dei pubblici uffici
dal Tribunale di Milano. A Roma si balla sulle terrazze e si fanno trenini che
non portano in nessun luogo, a Milano per ben due volte, nella sofferta storia
d’Italia, i cavalieri della destra subiscono
condanne definitive. Nel 1945 c’era stata una guerra mondiale sanguinosa voluta da una dittatura. Nel 2013 la guerra è
economico finanziaria, Arricchisce chi ha di più impoverisce i già poveri e l’intero
ceto medio. Chi ci ha governato ha responsabilità inappellabili. Hanno
esagerato i giudici di Mulano?. È probabile che lo abbiano fatto. Ma Silvio
Berlusconi è unfeat to lead per mille e uno motivi, non ultimo la natura
partitica e non trasparente del suo enorme potere imprenditoriale, economico,
finanziario, mediatico. La sentenza non travolge solo lui. Travolge tutte le
vecchie oligarchie, tutte le caste, comprese quelle di opposizione. Lui è l’ultimo
fantino rimasto a cavallo. Ha tenuto l’incollatura per l’inettitudine dell’avversario,
ma ha sfiancato il proprio cavallo - sei milioni e oltre di voti persi - drogandolo
con promesse demagogiche irrealizzabili. La caparbietà dell’inetto oppositore durante
le quirinalizie ha concesso al morto
politico Berlusconi una veglia funebre prolungata il cui seppellimento non può essere
esorcizzato da nessun miracolo, che pure in queste ore viene evocato dai
critici sofisti della cosiddetta magistratura combattente. Il Paese lo aveva
già seppellito. Pierluigi Bersani e molti degli eredi del PCI che hanno condotto
il PD nella più insensata e presuntuosa
campagna elettorale lo hanno ricollocato sul catafalco delle larghe intese.
Ora siamo di nuovo lì. Il governo
Letta sarà ancora più paralizzato dall’ira dello zombie politico. Il rinvio è
la parola d’ordine mentre la sponsorizzazione del cavaliere è una bomba
innescata per far deflagrare il conflitto istituzionale. Chi sta tra la gente
vede come i cittadini faticosamente stiano tentando, nonostante questi partiti,
di riprendere il filo per nuove imprese,
nuovo lavoro, nuove prospettive guardando ai fuochi di artificio che vengono
dai palazzi, come ai sussulti mortali dell’occhio di Gondor. Lasciate che i
morti seppelliscano i loro morti, diventa imperativo per tutti quelli che
dipendono dal proprio lavoro quotidiano, dalla propria intelligenza creativa.
Non c’è un attimo da perdere. Il
Sindaco di Firenze, Matteo Renzi è veramente una risorsa, l’ultima per la
democrazia costituzionale, così come l’abbiamo immaginata. Anche per le sue decisioni non c’è più il
tempo dei rinvii. Si deve andare al voto. Il Paese ha bisogno di un leader a
cui dare la forza e il tempo materiale necessario per ricostruire un ciclo
virtuoso di profili culturali, formativi, economici, finanziari per riportare l’Italia
all’altezza delle sfide future e fuori dal pantano fangoso a cui lo sta
condannando l’incapacità di decisione di una burocrazia tanto inetta quanto
rapace. Sfidi, Matteo Renzi, pubblicamente
il M5S a presentare congiuntamente una riforma della legge elettorale. Beppe Grillo continuerà a scommettere sul
collasso italiano e dirà di no? Sarà
processato anche lui, politicamente in questo caso, come già sta avvenendo. Il
PD faccia un congresso aperto e inclusivo e ci porti al voto, con qualunque
legge, anche con questa porcata, ma lo faccia con la guida a vocazione
maggioritaria dello spirito fondativo.
mercoledì 29 maggio 2013
Un nuovo PD : unica speranza di cambiamento
Il test elettorale che ha
riguardato sette milioni di italiani, tra i quali un aggregato molto specifico
come i cittadini romani, governati dal centro destra, conferma ciò che nell’analisi
è sempre più chiaro da un quadriennio: la rottura del patto sociale, la crisi
delle nomenclature che hanno governato venti anni della cosiddetta seconda
repubblica, il vento populista che gonfia e affloscia le vele di personaggi mediatici
che non riescono ad andare oltre la denuncia: si chiamino Orlando, Silvio Berlusconi, Di Pietro, De Magistris,
Beppe Grillo.
L’astensionismo cresce a
dismisura. Negli ultimi tre mesi a quello provocato dal disgusto per le pratiche sorde e
opache dei partiti si è aggiunto lo sconcerto di 55 giorni di confusione
quirinalizia originata da una direzione del PD tanto incapace quanto tetragona
a tutti i ragionevoli e chiari segnali inviati dall’elettorato. La sfiducia
nell’attuale sistema della rappresentanza coinvolge la maggioranza dei
cittadini. Che il fenomeno preluda a un conflitto sociale che scelga strade di
rottura e violente dipenderà molto dal persistere della crisi con
l’impraticabilità delle tradizionali politiche espansive della spesa pubblica.
Se l’Europa del Nord acconsentirà all’allentamento del rigore è possibile che le politiche di spesa permettano il
riassorbimento delle tensioni più acute? E, in questo caso, il nuovo
astensionismo si aggiungerà a quello tradizionale postbellico e accadrà da noi
quello che già avviene negli USA dove la espressione attiva del voto è
costantemente bassa? Ho seri dubbi. I due sistemi politico sociali non sono
meccanicamente comparabili. Ciò che
negli USA è fisiologico da noi è invece il portato di una protesta contro un feudalesimo politico e finanziario che alimenta rendite di posizione
ormai insopportabili e non riassorbibili nel ciclo perdurante di una crisi
continentale di lunga durata. Paghiamo quindi i ritardi di una mancato
investimento nell’innovazione, nella formazione, nella specificità
manifatturiera. Non ci mancano i fondamentali per uscirne fuori, ma ci occorrerebbero
dieci anni di un monocolore ampiamente maggioritario sostenuto da una visione
condivisa.
Grillo e Casaleggio puntano alla
fine dei partiti negando ogni politica delle alleanze. L’idiosincrasia della
mediazione è figlia della convinzione che gli interessi della cittadinanza non
siano mediabili con quelli che detengono il potere politico oggi. Lo sfascio,
l’inettitudine, la povertà del personale politico imperante è tale che non è
facile smontare la convinzione del gruppo dirigente pentastellato: hanno fatto
un pieno così tumultuoso e mai registratosi prima di voti che la controprova
del recupero è evidentemente onere di altri. E in ogni caso in quel movimento
si agitano, accanto a posizioni risibili, indubitabilmente spinte verso una
rappresentanza della decisione e della partecipazione che vanno fuori dai
confini nazionali e hanno forti analogie al nord , al sud, ad ovest e ad est
del mediterraneo. In Germania sta nascendo il Bewegung 5 Sterne. C’è quindi un
disagio di fondo nei popoli europei che è analogo sia nei paesi poco virtuosi dell’Europa del sud che in quelli più
previdenti e rigorosi del Nord.
Tuttavia, in Italia, il
dimezzamento del M5S, nel breve arco che va dalle politiche alle amministrative
del 26-27 maggio, è troppo rapido per non contenere tra le sue cause, oltre
alla tipica volubilità dei comportamenti dentro l’aggravarsi di una crisi
sistemica, la critica ad una povertà del personale politico e all’inconcludenza
nel governare che questo nascente movimento ha dimostrato in uno degli
appuntamenti istituzionali più alti italiani: la Presidenza del Consiglio e la
Presidenza della repubblica.
Silvio Berlusconi, con una
campagna elettorale politica di eccezionale sforzo mediatico e finanziario - concentrata
populisticamente sui punti sensibili immediatamente proprietari e fiscali - ha impedito che il tracollo elettorale del
centro destra fosse totale, pur perdendo oltre il 16% dei voti. Un capolavoro
tattico, accresciuto dallo stallo tripolare consegnatoci dal porcellum e dall’impetuoso
avanzare del M5S, ma al tempo stesso un non senso strategico, di fronte a una
crisi che non ammette altre soluzioni se non di affiancare alla radicale riduzione dei costi
della politica e della burocrazia statale e locale una redistribuzione della ricchezza
parassitaria accumulatasi in oltre un ventennio e una permanente lotta all’evasione.
Il blocco sociale e politico che sostiene le ultime barricate del Cavaliere,
questo lo sa perfettamente: cerca di rinviare il dimagrimento obbligatorio
sostenendo un signore che non ha visione strategica ma solo ossessioni personali
giudiziarie e, anagraficamente, poco tempo a disposizione. Questo centrodestra
è ingessato dall’origine monocratica e personalistica del suo apparato
politico: trova dunque grandi motivazioni nel primum vivere ma una incredibile
incorenza pratica nell’azione riformatrice liberale che ha promesso e di cui il
paese aveva ed ha un urgente bisogno. L’occasione che l’inettitudine e la
sordità del gruppo dirigente del PD gli ha consegnato è servita a Silvio Berlusconi per una boccata
di ossigeno. sicchè l’obbligato governo delle larghe intese non sembra
destinato a darci rapidamente quello che serve per un “bipolarismo gentile”
dell’alternanza e con una legge elettorale semplice e chiara come quella che ha
appena governato la recente tornata amministrativa. Il “problema Berlusconi”
con le sue esigenze giudiziarie resta intatto. L’innovazione e la governabilità
del paese non possono aspettarsi da quel lato nessuna disposizione benevola
alla sintesi. Il voto amministrativo,
con la dimostrazione dell’inservibilità dei sondaggi nel perdurare di una astensione
e una aleatorietà molto alta nei
comportamenti, ha incrinato i cori ottimistici sulla ripresa del centrodestra,
concedendo al governo Letta un clima politico più sereno e meno nevrotico.
E vengo al PD. Paradossalmente le
carte migliori, per un’altra Italia, finalmente sburocratizzata, ammodernata,
innovata nella Costituzione e nella forma della governance, ce le ha il PD.
Proprio quel partito depresso, che ha consumato l’autodafè di un gruppo
dirigente che dalla sua tradizione, non avendo più visione, ha ereditato solo
le parte oscura della conservazione di
se stesso. La forza del nuovo PD è la presenza in campo, contemporaneamente al
persistere degli zombie, di una
leadership reale, dinamica, appassionante, che aggrega, ed è potenzialmente
maggioritaria. L’ultimo voto sta a dimostrarlo con una costanza, dal 2011, che
solo la protervia di politici incapaci o resi ciechi da ideologie obsolete, riesce
a non vedere.
Debora Serracchiani ha
ironicamente chiosato il risultato sostenendo che si vince nonostante i
problemi del PD. Molto di vero c’è in questo paradosso e bisogna farci i conti
al congresso: il PD è dentro il popolo italiano. Plurale, radicato, meticcio, costituzionale,
solidaristico, pragmaticamente laico e legalitario; amministra da sempre
migliaia di comuni grandi e piccoli: non ha nei suoi elettori, come aveva
intuito il Lingotto, la rigidità e i difetti delle nomenclature originarie. La
stragrande maggioranza di questo elettorato, pur segnato pesantemente dall’insulto
di una nomenclatura incapace - che ha prodotto, è bene non dimenticarlo, un’ulteriore fuga verso l’astensione di
quattro/cinquecentomila elettori delle politiche - ha creduto al governo del
proprio territorio, ha votato i suoi rappresentanti.
Quale PD deve sopravvivere o
rivivere?
- Un PD senza soldi pubblici
intanto. E, badate bene, è veramente una rivoluzione che cambia completamente
il rapporto tra i cittadini che decidono di aderirvi sulla base di una scelta
del campo di valori laici, costituzionali, di libertà e solidarietà e di selezione
meritocratica della rappresentanza. La
fine dei tesorieri centrali e correntizi e l’avvento della trasparenza totale
delle contribuzioni militanti e private cambiano radicalmente la natura di un partito. Il
denaro rende disuguali le persone e i progetti. Non la meno troppo lunga su
questo aspetto: la cronaca degli ultimi venti anni è ricca di esempi di
disinvolto e illegale uso del denaro pubblico per alimentare le proprie
personali prospettive di carriera politica. Dopo Greganti e Citaristi è
finita la stagione dei fundraiser di
partito ed è dilagata quella dei conti
personali.
- Un PD centro studi che
selezioni i progetti, le donne e gli
uomini migliori e competenti, per
l’amministrazione della cosa pubblica
sottoponendoli costantemente al vaglio dei suoi riferimenti sociali.
.- Un PD che promuova la selezione di una classe dirigente nel
tempo misurabile per dare prova di sé nell’azione di governo locale e nazionale,
con un limite rigoroso dei mandati.
- Un PD che separi nettamente le responsabilità di partito
da quelle istituzionali scegliendo con primarie aperte a tutti i cittadini la
premiership.
- Un PD organizzato in tutte le forme varie e possibili che
una comunità del XXI secolo riesce a
pensare
- Un PD che, nell’immediato, si faccia dunque vigoroso
portatore del rinnovamento della Costituzione per un presidenzialismo alla
francese che assicuri la governabilità essenziale
per le sfide continentali.
martedì 30 aprile 2013
Non moriremo democristiani
Io lo capisco lo stato d’animo di
tanti ex comunisti. Soprattutto della mia età ed educati dal PCI
a mettere al primo posto la Repubblica
e l’unità nazionale. È anche il mio. Ascoltare orgogliosamente la lezione magistrale di un riformista
comunista a un Parlamento mostratosi
impotente non è bastato ad attenuare l’amarezza. Ritrovarsi un governo di ministri in
larghissima misura di cultura e
ispirazione democristiana, in una Italia depressa, frantumata e attraversata da
grumi di odio insolubile, colora le giornate di un sottile smarrimento. Ci sta.
E virilmente bisogna acconciarsi a questo passaggio.
Che è una necessità e non una
nuova era.
Quello che sembra un destino
fatale e beffardo è solo la forma che prende una transizione. L’inettitudine,
sommata all’arroganza, di molti eredi di quella grande tradizione del PCI ha determinato un risultato che appare come
una gigantesca rivincita della balena bianca. Sono i muri di cinta costruiti
dentro il PD, sin dalla sua fondazione, che ci hanno regalato questo risultato.
Sono le mobilitazioni interne contro gli intrusi che hanno reso apparenti
vincitori quelli che il popolo ha sanzionato con sei milioni di voti perduti. Sono
le insopportabili sordità alla protesta popolare che hanno gonfiato di seguaci
la violenza verbale del comico Grillo.
Sto per prendere la mia
quarantatrentesima tessera. Vengo dal PCI ma neanche per un attimo ho sentito
Matteo Renzi come un alieno dal mio PD. Al contrario, ho sentito quelli con le
mie stesse radici parlare una lingua che mi era sì molto nota, ma vecchia,
incomprensibile, inutilmente aspra e rabbiosa, anche quando si nascondeva
dietro la bonomia del dialetto emiliano.
Possiamo tornare al Lingotto e
andare oltre il Lingotto. Se guardiamo serenamente la verità di questi mesi e
la lezione che ci consegnano. Soprattutto i milioni che si fanno partito per gli
ideali costituzionali, per l’innovazione, per l’intelligenza e il merito, per
la legalità e che non hanno progetti di carriere politiche. Democratici.Rigorosi
però. Chi ha sbagliato politicamente deve farsi da parte. Almeno il tempo per
dar prova di non voler perseverare. L’equilibrio di questa transizione è
instabile ma ci offre il tempo
necessario per prepararci nel modo più giusto e, soprattutto, più netto per
guadagnarci la Terza repubblica che vogliamo per i nostri figli e i nostri
nipoti.
venerdì 26 aprile 2013
Lectio magistralis e nuovo PD per la Terza Repubblica
Il discorso del Napolitano
furioso, il giorno del giuramento, è, per la sinistra italiana, l’epifania
della ragione, la rivincita dura del riformismo nobile. Per dirla con Hegel, come lo spirito
aleggiava nella battaglia di Austerlitz, cosi l’astuzia della ragione ha
trionfato nell’emiciclo di Montecitorio. A 88 anni, il giovane studente
universitario che Amendola mise a guardia della stanza di Togliatti, nell’hotel
Roma della Napoli liberata, ha pronunciato, davanti agli oltre 1000 rappresentanti
del popolo, la più alta e vigorosa lezione politica. E non è un epilogo. È “il
discorso” che non è mai stato pronunciato prima e che tanti comunisti italiani
della mia età hanno sempre atteso dal
delfino di Giorgio Amendola.
Ed è una introduzione per una
svolta politica radicale nel PD.
Lo dico soprattutto per i tanti
giovani parlamentari eletti in questa legislatura dello stallo. Di fronte a
loro sta l’urgenza di coniugare la fedeltà ai valori fondamentali di libertà,
uguaglianza e solidarietà della nostra Carta costituzionale con la durezza del
fare il possibile, scevri dalla frase inconcludente o, peggio, dall’estremismo
infantile.
E lo dico a Matteo Renzi che più
di tutti in questi mesi ha coagulato l’insofferenza di una generazione verso il
politicismo delle oligarchie e la grettezza di una politica asfittica, senza anima,
sempre alla rancorosa ricerca dello schmittiano nemico e perciò priva di
empatia e compassione verso il proprio popolo. Il sindaco fiorentino, incarna,
anche fisicamente, la passione, e la speranza della politica intesa come sfida
che dà anche gioia - non tutte le macchine politiche gioiose sono destinate al
fallimento - percepite, nel confronto
con i volti lividi e artificiali dei capipopolo contemporanei, come messaggio
nuovo e attualissimo. E non certo risolvibile in una fiammata, in una contesa
temporanea.
Il paese è stato sfiancato e
frantumato nella propria coesione nazionale, degradato per la mancanza di cura
che lo stato doveva assicurare e che questo stato, occupato dai vecchi partiti,
si è limitato a dare a gruppi privilegiati e minoritari. Si è completamente
consumato un patto politico e sociale e bisogna ridondarlo. Occorre un lavoro
di lunga durata per cambiare questa Italia. Per questo gli innovatori hanno
bisogno di un PD nuovo. Non basta, come io spesso ho reclamato, il ritorno allo
spirito fondativo. Troppo è accaduto da quel lontano 2007, per pensare che si
riaccenda un’alchimia virtuosa. Troppe le ossificazioni di grammatiche e stili
per pensare che questi possano convivere ancora dentro un’unica cornice
organizzativa e politica. Il PD nuovo, i suoi dirigenti e i suoi militanti
devono costruire, a partire dalla rigorosa lettura da quello che è accaduto non
dalle dimissioni di Walter Veltroni - dentro i partito, nelle istituzioni e nel
paese – ma da oltre un ventennio, le
regole che fondano la Terza Repubblica e
danno alla nazione italiana la bussola e gli strumenti per navigare nel futuro
del XXI secolo, dentro cambiamenti inediti che modificheranno, equilibri geopolitici, egemonie e divisione
internazionale del lavoro.
La terza Repubblica non può che
essere presidenzialista, con un Presidente eletto come il Sindaco d’Italia, con
una Camera dei deputati dove siano rappresentati proporzionalmente le opinioni
politiche degli italiani per affrontare l’attività legislativa, con un Senato
come Camera delle regioni e delle autonomia locali, con una netta separazione del potere esecutivo
da quello legislativo e giudiziario. Abbiamo bisogno, per tentare di mantenere il
peso e ruolo che la la nostra intelligenza lavorativa e imprenditoriale si è conquistata dal dopoguerra, di una
governance legittimata direttamente dal popolo, non impiombata dalla pluralità
delle diversità politiche nella propria azione di governo ma democraticamente
temperata e capace di competere nella velocità delle decisioni che il processo
di costruzione degli Stati Uniti d’Europa ci impone.
Quello che è avvenuto negli ultimi
tre anni ci parla di un presidenzialismo che è già in qualche modo costituzione
materiale: è nascita di cui il nuovo PD deve essere levatrice.
Cosa sarebbe accaduto se non
avessimo avuto Giorgio Napolitano in gran parte del suo primo mandato? E di
fronte allo stallo di posizioni inconciliabili tra di loro, nel Parlamento,
cosa sarebbe accaduto al nostro sistema democratico senza il mandato bis al
vecchio dirigente del PCI? E nel momento stesso del dibattito quirinalizio,
quale era lo spirito che informava la pressione di strati ampi di opinione
pubblica - al netto della cinica
strumentalizzazione grillina – intorno a figure qualitativamente alte della
società civile, se non un volere irrompere dentro regole costituzionali che
obbligavano ad altri e più mediati percorsi?
Si dirà che questo è accaduto per
la eccezionalità della situazione politica creatasi con il tripolarismo
parlamentare, ma questo rilievo non cambia la sostanza di quello che è avvenuto,
anche perché in questi anni, nonostante le varie leggi elettorali non abbiamo
assistito alla semplificazione del sistema partitico. Anzi. Sia la storia francese che quella italiana ed
europea stanno lì a dimostrare che le opinioni organizzate in partito si
moltiplicano e non solo per interessi meramente corporativi. Ma anche in questo
caso. Anche se la frantumazione partitica fosse esclusivamente corporativa, a
maggior ragione dovremmo organizzarci per impedire che i possibili stalli
affossino l’intero sistema paese.
Cosa dovremmo temere da un
sistema presidenziale alla francese? Limitazione dei diritti del Parlamento?
Limitazione del potere giudiziario? Non sembra che questo sia avvenuto – e sono
ormai passati sessanta anni – in Francia. Anzi, lo spirito repubblicano ha
sempre fatto argine all’insorgenza antisemitica, fascistica e xenofoba che lì ha preceduto analoghi fenomeni
nostrani.
La storia non fa salti ma quando
una soluzione nuova è matura dentro la testa dei cittadini, ostacolarla diventa
impossibile ed ha come effetto solo la semplificazione violenta e senza regole.
Siamo di fronte a qualcosa di così esteso - come è accaduto per l’odiato finanziamento
pubblico dei partiti - che è vano esorcizzarlo con richiami a principi
mostratisi nei fatti inetti o peggio con il richiamo, ancora una volta, al baubau
di Arcore, ritenuto immortale.
Partito nuovo, dunque, che si
proponga di dare al Paese una nuova bussola. Un partito che ispiri e accompagni
l’avvento di un nuovo personale politico democratico, dal profilo alto, competente,
tecnico-scientifico, sperimentatosi nella soluzione dei problemi complessi, non
nella demagogia e nella contemplazione della propria irriducibilità ideologica.
Aperto, dunque, verso tutti, plurale, ma disciplinato nelle scelte e nelle
decisioni, liberato dalle correnti, culturalmente autonomo dalle pressioni di
poteri esterni. Non è il principio d’ordine che bisogna ricostituire, bensì
quello di maggioranza omogenea. Deve valere, al proprio interno, per i gruppi
dirigenti via via prevalenti, quella stessa vocazione maggioritaria che lo
caratterizza all’esterno. L’introduzione delle primarie affianco ai congressi
affida al vincitore la direzione e gli strumenti per realizzare i progetti
sottoposti al voto, senza i condizionamenti dei perdenti. Al tempo stesso
occorre tener separato il timone del partito da quello della premiership da
individuare con le primarie.E questo deve valere sia nazionalmente che
localmente, nel rispetto più rigoroso della legalità statutaria. Le pubbliche
elezioni diventano il banco di prova. La sconfitta in esse obbliga al
fisiologico ricambio.
sabato 20 aprile 2013
Democratici, sù la testa
Quello che è avvenuto in questi
giorni nelle urne per l’elezione del Quirinale era inevitabile. Si sono
concentrate in questa elezione - che non è mai stata facile neanche nel passato
ma che oggi, ha assunto un peso specialissimo per la mutazione della nostra
costituzione materiale – un groviglio di contraddizioni che il voto tripolare
ha reso quasi inestricabile. L’errore principale sta nelle mancate fisiologiche
dimissioni di Bersani dopo la non vittoria. Quelle dimissioni avrebbero avuto
il pregio politico di chiarire agli italiani
che c’erano stati un bocciato, Berlusconi con una emorragia di sei
milioni di voti, un rimandato, il PD con 3 milioni e novecentomila elettori che
se ne erano andati e un tumultuoso
apparire di un movimento di protesta. Quelle dimissioni sarebbero state un
potente e spontaneo segnale di ricevuto, avrebbero permesso a Giorgio Napolitano
di fare un governo di scopo, di eleggere la Presidenza della Repubblica
svincolandola dall’obbligo di garanzia di governi impossibili - larghe intesi e
governi di minoranza – e riandare al voto.
Pierluigi Bersani, sostenuto dai
suoi uomini più fedeli e da una cultura arrogante e settaria circolante
purtroppo nel corpo correntizio ed
eccitata a dismisura nella competizione delle primarie, ha scelto una linea che
in altri tempi si sarebbe definita semplicemente avventurista. Il risultato è
un capolavoro di inettitudine politica che ha regalato entrambi i fianchi a
Berlusconi e a Grillo. È possibile la guerra manovrata ma devi avere il
controllo del tuo esercito. L’ex
comunista e con lui la cerchia più ristretta hanno immaginato che il PD
fosse il PCI. Ma così non è e questa palese illusione è una colpa aggiuntiva.
Per questo ho parlato di dimissioni fisiologiche: il Partito democratico, per
la sua stessa fondazione non può
permettersi, pena la propria inattualità, gruppi dirigenti che procedano per
cooptazione o puri rimaneggiamenti di fronte alle sconfitte elettorali. Non
esiste per il PD l’alibi della
rivoluzione socialista e della missione
storica che permetteva al centralismo
democratico del PCI di assorbire le sconfitte lasciando sostanzialmente
invariati i gruppi dirigenti. Nel PD si misurano la competenza e il talento
politico nelle proposte per vincere le competizioni elettorali, come avviene in
tutti i sistemi occidentali. Ma questo equivoco dura da troppo tempo. Almeno
dal 1990. E non si scambi per rinnovamento la lotta dentro l’asse ereditario
del PCI. Gli Occhetto, i D’Alema, i Fassino, i Veltroni, passavano la mano ma
non cambiava la sostanza . Bersani paga, anche per i suoi limiti, la
conclusione di una storia accelerata dalla crisi di credibilità che ha
investito le oligarchie della seconda repubblica.
Ma il PD non è solo questa
storia. Il PD ne contiene ora un’altra che si è affacciata prepotentemente con
le primarie ed è quella più moderna, quella che parla la lingua del XXI secolo
e non vuole chiedere ai suoi membri appartenenze ideologiche ma solo passione, talento, competenze, merito
e sperimentazioni misurabili. Per questo non bisogna fasciarsi la testa.
Smettiamola con questa ipocrita retorica del bene comune che abbiamo
sperimentato non esistere. L’unico bene comune apprezzabile è quello di
politici preparati e giustamente ambiziosi che sappia mantenersi sempre una
spanna più in basso del bene della cosa pubblica. In “questa spanna più in
basso” si misura il valore del fare politica. E smettiamola anche - capisco che
non sia facile perché di menti strutturate e abituate alla politica come
scienza e non come spettacolo e clientela non è facile trovarne né in quelli
che la fanno nè in quelli che la
commentano - di subire la pressione dei mi piace, dei tweet, dell’emotività
adolescenziale di chi non ha alcuna educazione istituzionale. Il PD è un
partito di massa presente e radicato tra la gente. Chi pensi che il cambio di
questa classe dirigente ne postuli la
dissoluzione sbaglia i suoi calcoli. Un ricambio c’è. L’”astuzia della ragione”
si serve anche degli errori e dei comportamenti smodati per farsi strada. E in
queste ore quello che alcuni dei protagonisti si sono proposti di fare, i loro
scopi individuali, stanno determinando
la più grande e drammatica epifania del nuovo che c’è e che invano si è tentato
di soffocare. È un bene. E non conviene attardarsi con gli erranti in cattiva
fede. Tracciamo una riga e separiamoci definitivamente.
Coraggio Democratici, sù la
testa. Non regaliamo ai muscoli artificiosi del Cavaliere e agli insulti di
Grillo una vittoria che non hanno e che dovranno sudarsi duramente.Non
facciamoci condizionare dalla miseria di
commentatori e sostenitori mediatici più orridi delle oligarchie che li
commissionano. Senza il PD, intanto, non
si elegge nessun Presidente della Repubblica. Ridiamoci una bussola ferma e riavviamo
il ragionamento con il paese da dove è stato arrestato con la furbizia dolosa e
il potere degli apparati ora scompaginati: con un altro spirito, con un diverso
entusiasmo e con la credibilità di chi ha mostrato coerenza e ostinazione.
giovedì 18 aprile 2013
55 giorni giorni furono quelli del sequestro e dell’assassinio di Moro, 55 si avviano ad essere quelli nei quali è stato sequestrato un paese dentro scelte politiche sbagliate. Cerchiamo di liberarlo e non di ucciderlo.
Lo dico con gli ultimi sentimenti
di solidarietà verso chi ha con me una storia comune: non ci avete capito
niente, e siete in molti. I giudizi e le analisi di chi, a vario titolo, si è
sentito parte e supporter di un gruppo dirigente, sono consultabili negli
archivi dei giornali e sul web. Sono stati giudizi e analisi completamente
sbagliati. La fisiologica presa d’atto, il 26 febbraio, è stata ignorata e si è
perseverato in un errore che rischia di dissolvere il PD. E non viene nessun
vantaggio alla repubblica da questa dissoluzione, anzi. C’è un PdL sempre più
monocratico e ossessionato dai problemi giudiziari del suo padrone, con il
quale non è pensabile nessuna collaborazione che non alimenti, a torto o a
ragione, disgusto dell’opinione pubblica.
Sull’altro lato c’è un movimento senza democrazia interna, gonfiato dalla
disperazione degli elettori, che gioca allo sfascio, utilizzando il narcisismo
anticasta di vecchie e nuove mascherine e l’immaturità di una opinione pubblica
mantenuta adolescente da un sistema dell’informazione – inossidabile nei suoi
conflitti d’interesse proprietari - tra
i più corrivi tra quelli delle democrazie occidentali. Chi ha i capelli bianchi
come me, non saprebbe spiegarsi altrimenti come un ottantenne della prima e seconda
repubblica venga con grandi strepiti issato a simbolo del rinnovamento in
antagonismo a un coevo
altrettanto castale. Capisco che
questo sia il giochino tipico nel quale si è sempre distinto il radicalismo
italiano - Giacinto Pannella ci ha
costruito un solido potere di interdizione e di contropartite – non capisco
invece i ragionamenti di tanti giovani contemporanei se non con l’amara
conclusione, appunto, della mancanza di cultura istituzionale e di superficiale
emotività tutta mediaticamente costruita.
Non ci orientiamo e non troviamo
soluzioni dinanzi al problema che tutti
abbiamo di fronte se l’analisi dello stato del paese non ci illumina.. Occorreva,
dopo il disastro berlusconiano, un governo di lunga durata Affidabile,
competente, certosino, equo socialmente, feroce nella riduzione di tutto il
parassitismo burocratico e clientelare. Bersani e l’oligarchia sorda che lo
circonda hanno immaginato di poter vincere le elezioni e governare l’Italia
immaginando che la crisi del PdL li avrebbe favoriti oltre misura. Non hanno
ascoltato Matteo Renzi e non si sono affidati a lui. Non solo perché nelle
competizioni ognuno ha legittime differenti posizioni, ma soprattutto perché il
sindaco fiorentino ha affermato qualcosa che nessuno prima di lui aveva osato
affermare: badate che voi non siete la soluzione, voi siete, per gli italiani, il problema, così come lo è Berlusconi.
Le elezioni gli hanno dato
ragione. Gli italiani per la maggior parte hanno protestato con il vaffanculo
grillino e con l’astensione, infilando il paese nelle sabbie mobili. Un gruppo
dirigente
Non ossessionato dai propri
personali destini, avrebbe passato la mano per permettere un governo di scopo,
una riforma elettorale e il ritorno alle urne. Perché? Perché il paese ha
bisogno di un vincitore certo per affrontare una crisi che sarà di lunga durata e non di una tomba tripolare con gli sberleffi
di un comico sull’orlo del precipizio. Un vincitore certo – di centro destra o
di centro sinistra non è questo il punto – che con il proprio oppositore
concordi su una legislatura costituente che dia al paese un assetto istituzionale
più moderno e capace di assicurare la governance anche a fronte di una grande
pluralità di opinioni politiche.
La posta in gioco è questa, non
altra. Allora questo aereo che si trova in stallo e può quindi avvitarsi irrimediabilmente
per schiantarsi ha bisogno di piloti competenti che accompagnino questo
passaggio, non la costruzione di maggioranze senza costrutto e stabilità come
quelle irresponsabilmente evocate sia verso Berlusconi che verso Grillo.
Il PD deve darsi come candidato
quello migliore e che unisce tutto il partito in questa prospettiva, non blandire un’opinione pubblica resa vieppiù
rabbiosa da 55 giorni ( sembrano quelli del sequestro Moro) gestiti senza intelligenza
e senza trasparenza, abbandonando apertamente ogni idea di governo di lunga
durata.
lunedì 8 aprile 2013
Non serve un Midas al PD, ma un San Ginesio
Se qualcuno confida su un moto
dal basso che indirizzi l’insieme del PD verso la ragionevolezza di un
programma di emergenza e di un voto da tenersi tra estate ed autunno
affidandosi – qualunque sia la legge elettorale – alla leadership di Matteo
Renzi, nutre grandi illusioni.
Il parastato partitico del mondo
della sinistra, dentro il quale è collocato ancora pesantemente il PD, ha tutto da perdere dalla gigantesca cura
dimagrante che devono fare gli istituti di rappresentanza, gli enti intermedi,
tutte le sinecura inventate per sistemare capibastone territoriali, regionali,
comunali, circoscrizionali. Certo circola ancora molta nostalgia
ideologica, ma è strumentazione polemica per nascondere la sostanza: gli interessi, le carriere di una miriadi di
mestieranti partitici. Le nomine nelle migliaia di enti comunali, provinciali,
regionali e i bilanci di piccole e grandi coop beneficiati
da una spesa pubblica facile e dalla magnanimità delle licenze della grande
distribuzione.
Per questo non appare buffo che
un signore non iscritto al PD si presenti per candidarsi alla sua guida. Quella
roba di cui parlavo prima lo ha già annusato ed è pronta a farlo vincere “democraticamente”
nei congressi. Ma se fosse questo il disegno, cioè l’ennesimo rimpannucciamento
intorno alla ditta il disastro generale per il centrosinistra sarebbe irreversibile.
Il Paese, al di là di mirate,
brevi e finanziariamente autosufficienti politiche espansive deve “risputare “
tutto quello che ha ingoiato di surplus legato alla dissipazione del denaro
pubblico per cementare consenso e deve dotarsi di un nuovo sistema di govenance scegliendo un modello istituzionale più consono alle sfide che l'Europa unita richiede. Chiunque governi. Allora la questione
decisiva, rispetto all’emergenza politico sociale italiana è se gli eredi più
intelligenti dell’ex PCI, pur senza l’autodafè dello streaming bersaniano
grillino, abbiano un soprassalto autocritico e dimostrino compassione per l’Italia.
Non è un Midas quello che serve, ma un San Ginesio. Nel bene e nel male ancora
una volta è Massimo D’Alema che ha le carte che servono a un processo unitario
e non scissionistico.
venerdì 29 marzo 2013
Un congresso straordinario subito
Noi siamo il risultato, non la causa. In
queste poche parole pronunciate dal capogruppo grillino al Senato c’è l’analisi
più precisa è inconfutabile del voto che ci ha consegnato questo micidiale
impasse politico. C’è anche l’indicazione della via maestra che avrebbe
dovuto seguire il PD.
Il candidato premier che ha vinto le
primarie e non è riuscito a conseguire una maggioranza autosufficiente ha avuto
molto tempo per valutare la situazione politica e trarne le necessarie e
fisiologiche conseguenze. Partendo innanzitutto da un punto, per il PD e per
lui – a torto o a ragione – invalicabile: l’impossibile alleanza con il PDL e
con la Lega. Tolta di mezzo “la grande coalizione”, Bersani non ha giudicato
l’exploit del M5S come gli stessi beneficati hanno fatto - Noi siamo il
risultato e non la causa - ma si è
affrettato, ahinoi, a considerarlo interlocutore politico tradizionale, sia
pure novissimo. E quindi ha puntato sul M5s la propria strategia per formare un
governo e per non trarre subito l’unica conseguenza politica possibile dal
voto: le proprie dimissioni.
Quell’atto allora avrebbe chiarito più di
ogni altro che gli sconfitti, in modi e con perdite di consenso diversi, erano
lui e Berlusconi, imputati dal popolo italiano di responsabilità simili anche se
non identiche. Avrebbe confermato
orgoglio e dignità del proprio partito che ha dentro risorse nuove e non coinvolgibili nel tutti a casa,
avrebbe consegnato le redini al Presidente della Repubblica per costruire un
percorso di breve momento per l’emergenza e per riportare il paese al voto
nella chiarezza senza che gli apprendisti stregoni del tanto peggio tanto
meglio potessero speculare sulle ammucchiate della casta. Invece si è scelta
un’altra strada che ha procurato in un mese non pochi danni alla credibilità
delle istituzioni, attraverso il corteggiamento insensato di Grillo e
Casaleggio .
In questi giorni, poi,
nell’autodafè dello streaming, ha addirittura definito il suo beffardo
e offensivo interlocutore come una grande forza, che merita rispetto. Come
possa suscitare simili considerazione una formazione democraticamente opaca ed
esplicitamente eversiva lo sa solo Giove. E quanto questo giudizio confonda
ancora di più i cittadini italiani e danneggi nella prospettiva prossima lo stesso PD è del tutto evidente.
Nel frattempo si sbriciola tutto: un intero gruppo parlamentare invade
minaccioso gli uffici dei magistrati inquirenti e giudicanti oltraggiando
l’indipendenza di un potere dello Stato;
un ministro degli esteri da operetta, con interessi di carriera ancora
oscuri ma indubitabilmente costruiti sulla pelle di due militari italiani,
butta alle ortiche in diretta parlamentare, decoro delle istituzioni, forma e
lealtà politica al suo primo ministro; un assessore alla cultura di una grande
regione, in trasferta a Bruxelles, dipinge il parlamento italiano come un
lupanare; un sindacato di polizia scende in piazza per manifestare contro una
sentenza, oltraggiando una madre il cui
figlio è morto in seguito alle violenze dei colleghi condannati; la crsi
economica sfianca i più deboli e li consegna inermi ad ogni populismo. A Roma,
un partito senza governo e senza una idea si abbandona all’orgia delle primarie
con l’assalto ai municipi che dovrebbero, nella loro pletoricità assembleare e
inetta , essere oggetto di cancellazione così come si auspica per le province.
C’è da reagire a tutto questo. Prendere atto sobriamente che un gruppo dirigente ha sbagliato. Sbagliato gravemente sì, perchè si è ostinato a non ascoltare e a non leggere i messaggi che venivano con nettezza dai cittadini, strumentalizzando i quali due parvenu della politica come Grillo e .Casaleggio hanno raccolto il consenso di un terzo degli italiani. Prima si fa un congresso per definire se è ancora valida
l’ispirazione del Lingotto e si fanno le scelte conseguenti e meglio è per il
paese e per quanti non vogliono starsene con le mani in mano a guardare non l’agonia della seconda repubblica ma
l’involuzione della democrazia.
giovedì 28 marzo 2013
Una nuova religione
Sciopero generale. Quelli della
mia generazione si ricordano quanto fosse forte e drammatica l’indizione di uno
sciopero generale. Tutti sapevano, nonostante le formali obiezioni e
giustificazioni sul carattere non politico di una simile forma di lotta, quanto
peso avesse il simultaneo e generalizzato incrociare le braccia di chi
produceva la ricchezza del paese.
Di fronte allo sfascio generale
sembrerebbe più che necessaria la protesta di chi lavora e subisce più di ogni
altro i colpi della crisi. Ma chi ha il potere di convocarlo uno sciopero
generale? Nessuno più. Solo corporative convocazioni di rabbia a reclamare
soluzioni prive di disegno e visione.
Incapaci di imporre nel momento
della verità l’unica parola unificante degli occupati e dei disoccupati dentro
l’austerità obbligata - l’equità , perché i duemila miliardi di debito pubblico
sono finiti nelle tasche di tutti ma ci sono state tasche che ne hanno beneficato in modo
spropositato - i sindacati hanno preferito arroccarsi nella difesa ideologica
di condizioni di mercato che non esistono e non esisteranno mai più. Hanno
preferito chiamarsi fuori, non firmare compromessi, demonizzare finanza e
globalizzazione, hanno smesso di studiare e lottare, proporre soluzioni
condivise. Si sono ritratti a difesa di un tabernacolo custode di dogmi
polverosi. Si sono rifugiati dentro trasmissioni televisive con i loro corrivi cantori
populisti, i loro comici, i loro disegnatori satirici, i loro cantanti, i loro
magistrati, hanno persino incensato le pause di un cervello vuoto spacciato per
riflessione alta. Hanno abdicato alla loro funzione storica. E in queste
difficili ore della Repubblica o balbettano o tacciono privi di parole
religiose. Per loro parlano avventurieri, cantori rabbiosi quanto insensati,
falliti in ogni responsabilità pubblica. Non so se ne usciremo, da questa
follia faziosa e incompetente, o meglio, se ne usciremo mantenendo intatte le
conquiste dei nostri padri resistenziali. Certo è che si avvicina velocemente
il tempo di una nuova religione.
PS Pleonastico aggiungere che i
termini religioso, religione, sono qui usati nel senso etimologico di ciò che
ci unisce nella con/passione.
venerdì 18 gennaio 2013
Ma è proprio vero che siamo rassicuranti?
Quando le colpe sono solo dei
Tartari ti chiudi nel fortino e consoli
e rassicuri i tuoi con l’attesa inutile di una palingenesi. Lotta
all’inflazione e politiche della sicurezza sono i due tratti che contraddistinguono
una forza autenticamente popolare. Lo ripeteva spesso Giorgio Amendola
polemizzando con quelli che in economia arzigogolavano sulla irriformabilità
del modello capitalistico e quelli, quasi sempre gli stessi, comprensivi, nella
giustificazione sociale, della diffusione della micro criminalità. Sono passati
35 anni dal dibattito sulle politiche di rigore e dell’ordine democratico della
seconda metà degli anni settanta, e siamo ancora a dividerci esattamente sulle
stesse cose. Ed è esattamente per questo che quel terzo di elettorato di
sinistra
è rimasto lo stesso, senza
valicare i suoi recinti e diventare persuasivo della maggioranza degli
italiani. Fa dunque una notevole impressione vedere come rapidamente si gettino
a mare, svalutandoli, dodici mesi di rigore montiano. Si badi bene, non una
ricetta liberista qualunque - come si dice a ogni piè sospinto - ma l’onesto riconoscimento – che dovrebbe
prescinder dai destini personali di Monti - che alla crisi degli equilibri economici e
finanziari mondiali, si aggiunge in Italia una specificità dovuta a una
trentennale e sfrenata spesa pubblica che ha impiombato l’ottavo paese
industrializzato a una decennale non crescita. Mentre l’enorme metastasi
burocratica e corruttiva e la
moltiplicazione inusitata di livelli di rappresentatività pletorica hanno reso
ancora più lento e inadeguato il potere di decisione e di scelta dell’intero
sistema. Di entrambi i fenomeni le responsabilità sono condivise da tutti e non
serve consolarsi sulle differenze percentuali. Colpiscono, così,
paradossalmente, le analogie e gli
approdi del pensiero strutturato di Fassina e di quello illogico di Berlusconi:
i mali vengono dall’estero, da circoli opachi alla Bildeberg che nello stivale
s’incarnano poi nella massoneria di qualunque rito, nei circoli dei Rotary e
dei Lion’s. Per Berlusconi c’è un complotto internazionale che gli ha impedito
di governare per venti anni, per Fassina c’è il liberismo mondiale ed europeo che
bisogna ribaltare – tema sicuramente
all’ordine del giorno - mentre in Italia
è sufficiente un po’ di deficit spending e inflazione controllata - povero
Amendola senza più Pantheon! Hai voglia
a convocare Dell’Aringa e Mucchetti se il tuo corpo militante, quello che
dialoga con i cittadini da conquistare a cinque anni di ulteriore e più ampio
rigore , si nutre di simili semplificazioni ottocentesche. A questa dicotomia
del pensarla in un modo ai vertici e praticare l’embrassons nous alla base
abbiamo sempre pagato un prezzo nelle ore cruciali di possibile svolta. Sta
accadendo anche questa volta. E se ti provi a dirlo sei disfattista .
Altrettanto paradossale trovo, a
parte il tradizionale e quasi liturgico accenno all’esigenza di lottare contro
le mafie, l’assenza nei ragionamenti del nostro candidato premier, di
riferimenti forti alla necessità di restituire sicurezza all’ambiente di vita,
pesantemente e giornalmente assediata nei grandi centri urbani, come nei
piccoli, da una microcriminalità che aggredisce nelle strade, nei supermercati,
nelle scuole, negli ospedali, al ritorno dagli uffici postali e, se finalmente,
sembra crescere l’allarme sulla violenza contro le donne, sempre più sfocati e
sottovalutati appaiono quei i piccoli delitti che condizionano pesantemente la
libertà di ciascuno. E che dire della diffusione di alcool tra i giovani e la moltiplicazione
inusitata fino ai livelli del consumo alimentare dei giochi d’azzardo di stato? Anche in questo ambito siamo a
livelli e caratteristiche del tutto specifiche italiane. E siccome non c’è un
estero maligno, se non in qualche paese sudamericano e del far east asiatico,
semplicemente stendiamo un velo e non parliamo di quello che invece preoccupa
milioni di nostre famiglie. Chissà, magari, via via che la contesa si fa più
dura, si troverà il modo di correggere prima di dover rincorrere qualcun altro.
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