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martedì 30 aprile 2013

Non moriremo democristiani


Io lo capisco lo stato d’animo di tanti ex comunisti. Soprattutto della mia età ed educati dal PCI
a mettere al primo posto la Repubblica e l’unità nazionale. È anche il mio. Ascoltare orgogliosamente  la lezione magistrale di un riformista comunista  a un Parlamento mostratosi impotente non è bastato ad attenuare l’amarezza.  Ritrovarsi un governo di ministri in larghissima misura  di cultura e ispirazione democristiana, in una Italia depressa, frantumata e attraversata da grumi di odio insolubile, colora le giornate di un sottile smarrimento. Ci sta. E virilmente bisogna acconciarsi a questo passaggio.

Che è una necessità e non una nuova era.

Quello che sembra un destino fatale e beffardo è solo la forma che prende una transizione. L’inettitudine, sommata all’arroganza, di molti eredi di quella grande tradizione del PCI  ha determinato un risultato che appare come una gigantesca rivincita della balena bianca. Sono i muri di cinta costruiti dentro il PD, sin dalla sua fondazione, che ci hanno regalato questo risultato. Sono le mobilitazioni interne contro gli intrusi che hanno reso apparenti vincitori quelli che il popolo ha sanzionato con sei milioni di voti perduti. Sono le insopportabili sordità alla protesta popolare che hanno gonfiato di seguaci la violenza verbale del comico Grillo.

Sto per prendere la mia quarantatrentesima tessera. Vengo dal PCI ma neanche per un attimo ho sentito Matteo Renzi come un alieno dal mio PD. Al contrario, ho sentito quelli con le mie stesse radici parlare una lingua che mi era sì molto nota, ma vecchia, incomprensibile, inutilmente aspra e rabbiosa, anche quando si nascondeva dietro la bonomia del dialetto emiliano.

Possiamo tornare al Lingotto e andare oltre il Lingotto. Se guardiamo serenamente la verità di questi mesi e la lezione che ci consegnano. Soprattutto i milioni che si fanno partito per gli ideali costituzionali, per l’innovazione, per l’intelligenza e il merito, per la legalità e che non hanno progetti di carriere politiche. Democratici.Rigorosi però. Chi ha sbagliato politicamente deve farsi da parte. Almeno il tempo per dar prova di non voler perseverare. L’equilibrio di questa transizione è instabile  ma ci offre il tempo necessario per prepararci nel modo più giusto e, soprattutto, più netto per guadagnarci la Terza repubblica che vogliamo per i nostri figli e i nostri nipoti.

venerdì 26 aprile 2013

Lectio magistralis e nuovo PD per la Terza Repubblica



Il discorso del Napolitano furioso, il giorno del giuramento, è, per la sinistra italiana, l’epifania della ragione, la rivincita dura del riformismo nobile.  Per dirla con Hegel, come lo spirito aleggiava nella battaglia di Austerlitz, cosi l’astuzia della ragione ha trionfato nell’emiciclo di Montecitorio. A 88 anni, il giovane studente universitario che Amendola mise a guardia della stanza di Togliatti, nell’hotel Roma della Napoli liberata, ha pronunciato, davanti agli oltre 1000 rappresentanti del popolo, la più alta e vigorosa lezione politica. E non è un epilogo. È “il discorso” che non è mai stato pronunciato prima e che tanti comunisti italiani della mia età  hanno sempre atteso dal delfino di Giorgio Amendola.

Ed è una introduzione per una svolta politica radicale nel PD.

Lo dico soprattutto per i tanti giovani parlamentari eletti in questa legislatura dello stallo. Di fronte a loro sta l’urgenza di coniugare la fedeltà ai valori fondamentali di libertà, uguaglianza e solidarietà della nostra Carta costituzionale con la durezza del fare il possibile, scevri dalla frase inconcludente o, peggio, dall’estremismo infantile.

E lo dico a Matteo Renzi che più di tutti in questi mesi ha coagulato l’insofferenza di una generazione verso il politicismo delle oligarchie e la grettezza di una politica asfittica, senza anima, sempre alla rancorosa ricerca dello schmittiano nemico e perciò priva di empatia e compassione verso il proprio popolo. Il sindaco fiorentino, incarna, anche fisicamente, la passione, e la speranza della politica intesa come sfida che dà anche gioia - non tutte le macchine politiche gioiose sono destinate al fallimento -  percepite, nel confronto con i volti lividi e artificiali dei capipopolo contemporanei, come messaggio nuovo e attualissimo. E non certo risolvibile in una fiammata, in una contesa temporanea.

Il paese è stato sfiancato e frantumato nella propria coesione nazionale, degradato per la mancanza di cura che lo stato doveva assicurare e che questo stato, occupato dai vecchi partiti, si è limitato a dare a gruppi privilegiati e minoritari. Si è completamente consumato un patto politico e sociale e bisogna ridondarlo. Occorre un lavoro di lunga durata per cambiare questa Italia. Per questo gli innovatori hanno bisogno di un PD nuovo. Non basta, come io spesso ho reclamato, il ritorno allo spirito fondativo. Troppo è accaduto da quel lontano 2007, per pensare che si riaccenda un’alchimia virtuosa. Troppe le ossificazioni di grammatiche e stili per pensare che questi possano convivere ancora dentro un’unica cornice organizzativa e politica. Il PD nuovo, i suoi dirigenti e i suoi militanti devono costruire, a partire dalla rigorosa lettura da quello che è accaduto non dalle dimissioni di Walter Veltroni - dentro i partito, nelle istituzioni e nel paese – ma da oltre un ventennio,  le regole che fondano  la Terza Repubblica e danno alla nazione italiana la bussola e gli strumenti per navigare nel futuro del XXI secolo, dentro cambiamenti inediti che modificheranno,  equilibri geopolitici, egemonie e divisione internazionale del lavoro.

La terza Repubblica non può che essere presidenzialista, con un Presidente eletto come il Sindaco d’Italia, con una Camera dei deputati dove siano rappresentati proporzionalmente le opinioni politiche degli italiani per affrontare l’attività legislativa, con un Senato come Camera delle regioni e delle autonomia locali,  con una netta separazione del potere esecutivo da quello legislativo e giudiziario. Abbiamo bisogno, per tentare di mantenere il peso e ruolo che la la nostra intelligenza lavorativa e imprenditoriale  si è conquistata dal dopoguerra, di una governance legittimata direttamente dal popolo, non impiombata dalla pluralità delle diversità politiche nella propria azione di governo ma democraticamente temperata e capace di competere nella velocità delle decisioni che il processo di costruzione degli Stati Uniti d’Europa ci impone.

Quello che è avvenuto negli ultimi tre anni ci parla di un presidenzialismo che è già in qualche modo costituzione materiale: è nascita di cui il nuovo PD deve essere levatrice.

Cosa sarebbe accaduto se non avessimo avuto Giorgio Napolitano in gran parte del suo primo mandato? E di fronte allo stallo di posizioni inconciliabili tra di loro, nel Parlamento, cosa sarebbe accaduto al nostro sistema democratico senza il mandato bis al vecchio dirigente del PCI? E nel momento stesso del dibattito quirinalizio, quale era lo spirito che informava la pressione di strati ampi di opinione pubblica -  al netto della cinica strumentalizzazione grillina – intorno a figure qualitativamente alte della società civile, se non un volere irrompere dentro regole costituzionali che obbligavano ad altri e più mediati percorsi?

Si dirà che questo è accaduto per la eccezionalità della situazione politica creatasi con il tripolarismo parlamentare, ma questo rilievo non cambia la sostanza di quello che è avvenuto, anche perché in questi anni, nonostante le varie leggi elettorali non abbiamo assistito alla semplificazione del sistema partitico. Anzi.  Sia la storia francese che quella italiana ed europea stanno lì a dimostrare che le opinioni organizzate in partito si moltiplicano e non solo per interessi meramente corporativi. Ma anche in questo caso. Anche se la frantumazione partitica fosse esclusivamente corporativa, a maggior ragione dovremmo organizzarci per impedire che i possibili stalli affossino l’intero sistema paese.

Cosa dovremmo temere da un sistema presidenziale alla francese? Limitazione dei diritti del Parlamento? Limitazione del potere giudiziario? Non sembra che questo sia avvenuto – e sono ormai passati sessanta anni – in Francia. Anzi, lo spirito repubblicano ha sempre fatto argine all’insorgenza antisemitica, fascistica e xenofoba  che lì ha preceduto analoghi fenomeni
nostrani.  

La storia non fa salti ma quando una soluzione nuova è matura dentro la testa dei cittadini, ostacolarla diventa impossibile ed ha come effetto solo la semplificazione violenta e senza regole. Siamo di fronte a qualcosa di così esteso -  come è accaduto per l’odiato finanziamento pubblico dei partiti - che è vano esorcizzarlo con richiami a principi mostratisi nei fatti inetti o peggio con il richiamo, ancora una volta, al baubau  di Arcore, ritenuto immortale.

Partito nuovo, dunque, che si proponga di dare al Paese una nuova bussola. Un partito che ispiri e accompagni l’avvento di un nuovo personale politico democratico, dal profilo alto, competente, tecnico-scientifico, sperimentatosi nella soluzione dei problemi complessi, non nella demagogia e nella contemplazione della propria irriducibilità ideologica. Aperto, dunque, verso tutti, plurale, ma disciplinato nelle scelte e nelle decisioni, liberato dalle correnti, culturalmente autonomo dalle pressioni di poteri esterni. Non è il principio d’ordine che bisogna ricostituire, bensì quello di maggioranza omogenea. Deve valere, al proprio interno, per i gruppi dirigenti via via prevalenti, quella stessa vocazione maggioritaria che lo caratterizza all’esterno. L’introduzione delle primarie affianco ai congressi affida al vincitore la direzione e gli strumenti per realizzare i progetti sottoposti al voto, senza i condizionamenti dei perdenti. Al tempo stesso occorre tener separato il timone del partito da quello della premiership da individuare con le primarie.E questo deve valere sia nazionalmente che localmente, nel rispetto più rigoroso della legalità statutaria. Le pubbliche elezioni diventano il banco di prova. La sconfitta in esse obbliga al fisiologico ricambio.

sabato 20 aprile 2013

Democratici, sù la testa


Quello che è avvenuto in questi giorni nelle urne per l’elezione del Quirinale era inevitabile. Si sono concentrate in questa elezione - che non è mai stata facile neanche nel passato ma che oggi, ha assunto un peso specialissimo per la mutazione della nostra costituzione materiale – un groviglio di contraddizioni che il voto tripolare ha reso quasi inestricabile. L’errore principale sta nelle mancate fisiologiche dimissioni di Bersani dopo la non vittoria. Quelle dimissioni avrebbero avuto il pregio politico di chiarire agli italiani  che c’erano stati un bocciato, Berlusconi con una emorragia di sei milioni di voti, un rimandato, il PD con 3 milioni e novecentomila elettori che se ne erano andati  e un tumultuoso apparire di un movimento di protesta. Quelle dimissioni sarebbero state un potente e spontaneo segnale di ricevuto, avrebbero permesso a Giorgio Napolitano di fare un governo di scopo, di eleggere la Presidenza della Repubblica svincolandola dall’obbligo di garanzia di governi impossibili - larghe intesi e governi di minoranza – e riandare al voto.

Pierluigi Bersani, sostenuto dai suoi uomini più fedeli e da una cultura arrogante e settaria circolante purtroppo nel corpo correntizio  ed eccitata a dismisura nella competizione delle primarie, ha scelto una linea che in altri tempi si sarebbe definita semplicemente avventurista. Il risultato è un capolavoro di inettitudine politica che ha regalato entrambi i fianchi a Berlusconi e a Grillo. È possibile la guerra manovrata ma devi avere il controllo del tuo esercito. L’ex  comunista e con lui la cerchia più ristretta hanno immaginato che il PD fosse il PCI. Ma così non è e questa palese illusione è una colpa aggiuntiva. Per questo ho parlato di dimissioni fisiologiche: il Partito democratico, per la sua stessa fondazione  non può permettersi, pena la propria inattualità, gruppi dirigenti che procedano per cooptazione o puri rimaneggiamenti di fronte alle sconfitte elettorali. Non esiste  per il PD l’alibi della rivoluzione socialista  e della missione storica  che permetteva al centralismo democratico del PCI di assorbire le sconfitte lasciando sostanzialmente invariati i gruppi dirigenti. Nel PD si misurano la competenza e il talento politico nelle proposte per vincere le competizioni elettorali, come avviene in tutti i sistemi occidentali. Ma questo equivoco dura da troppo tempo. Almeno dal 1990. E non si scambi per rinnovamento la lotta dentro l’asse ereditario del PCI. Gli Occhetto, i D’Alema, i Fassino, i Veltroni, passavano la mano ma non cambiava la sostanza . Bersani paga, anche per i suoi limiti, la conclusione di una storia accelerata dalla crisi di credibilità che ha investito le oligarchie della seconda repubblica.

Ma il PD non è solo questa storia. Il PD ne contiene ora un’altra che si è affacciata prepotentemente con le primarie ed è quella più moderna, quella che parla la lingua del XXI secolo e non vuole chiedere ai suoi membri appartenenze ideologiche  ma solo passione, talento, competenze, merito e sperimentazioni misurabili. Per questo non bisogna fasciarsi la testa. Smettiamola con questa ipocrita retorica del bene comune che abbiamo sperimentato non esistere. L’unico bene comune apprezzabile è quello di politici preparati e giustamente ambiziosi che sappia mantenersi sempre una spanna più in basso del bene della cosa pubblica. In “questa spanna più in basso” si misura il valore del fare politica. E smettiamola anche - capisco che non sia facile perché di menti strutturate e abituate alla politica come scienza e non come spettacolo e clientela non è facile trovarne né in quelli che  la fanno nè in quelli che la commentano - di subire la pressione dei mi piace, dei tweet, dell’emotività adolescenziale di chi non ha alcuna educazione istituzionale. Il PD è un partito di massa presente e radicato tra la gente. Chi pensi che il cambio di questa classe dirigente ne  postuli la dissoluzione sbaglia i suoi calcoli. Un ricambio c’è. L’”astuzia della ragione” si serve anche degli errori e dei comportamenti smodati per farsi strada. E in queste ore quello che alcuni dei protagonisti si sono proposti di fare, i loro scopi individuali,  stanno determinando la più grande e drammatica epifania del nuovo che c’è e che invano si è tentato di soffocare. È un bene. E non conviene attardarsi con gli erranti in cattiva fede. Tracciamo una riga e separiamoci definitivamente.

Coraggio Democratici, sù la testa. Non regaliamo ai muscoli artificiosi del Cavaliere e agli insulti di Grillo una vittoria che non hanno e che dovranno sudarsi duramente.Non facciamoci condizionare  dalla miseria di commentatori e sostenitori mediatici più orridi delle oligarchie che li commissionano. Senza il PD, intanto,  non si elegge nessun Presidente della Repubblica. Ridiamoci una bussola ferma e riavviamo il ragionamento con il paese da dove è stato arrestato con la furbizia dolosa e il potere degli apparati ora scompaginati:  con un altro spirito, con un diverso entusiasmo e con la credibilità di chi ha mostrato coerenza e ostinazione.    

giovedì 18 aprile 2013

55 giorni giorni furono quelli del sequestro e dell’assassinio di Moro, 55 si avviano ad essere quelli nei quali è stato sequestrato un paese dentro scelte politiche sbagliate. Cerchiamo di liberarlo e non di ucciderlo.



Lo dico con gli ultimi sentimenti di solidarietà verso chi ha con me una storia comune: non ci avete capito niente, e siete in molti. I giudizi e le analisi di chi, a vario titolo, si è sentito parte e supporter di un gruppo dirigente, sono consultabili negli archivi dei giornali e sul web. Sono stati giudizi e analisi completamente sbagliati. La fisiologica presa d’atto, il 26 febbraio, è stata ignorata e si è perseverato in un errore che rischia di dissolvere il PD. E non viene nessun vantaggio alla repubblica da questa dissoluzione, anzi. C’è un PdL sempre più monocratico e ossessionato dai problemi giudiziari del suo padrone, con il quale non è pensabile nessuna collaborazione che non alimenti, a torto o a ragione,  disgusto dell’opinione pubblica. Sull’altro lato c’è un movimento senza democrazia interna, gonfiato dalla disperazione degli elettori, che gioca allo sfascio, utilizzando il narcisismo anticasta di vecchie e nuove mascherine e l’immaturità di una opinione pubblica mantenuta adolescente da un sistema dell’informazione – inossidabile nei suoi conflitti d’interesse proprietari -  tra i più corrivi tra quelli delle democrazie occidentali. Chi ha i capelli bianchi come me, non saprebbe spiegarsi altrimenti come un ottantenne della prima e seconda repubblica venga con grandi strepiti issato a simbolo del rinnovamento in antagonismo a un coevo
altrettanto castale. Capisco che questo sia il giochino tipico nel quale si è sempre distinto il radicalismo italiano - Giacinto Pannella  ci ha costruito un solido potere di interdizione e di contropartite – non capisco invece i ragionamenti di tanti giovani contemporanei se non con l’amara conclusione, appunto, della mancanza di cultura istituzionale e di superficiale emotività tutta mediaticamente costruita.

Non ci orientiamo e non troviamo soluzioni dinanzi  al problema che tutti abbiamo di fronte se l’analisi dello stato del paese non ci illumina.. Occorreva, dopo il disastro berlusconiano, un governo di lunga durata Affidabile, competente, certosino, equo socialmente, feroce nella riduzione di tutto il parassitismo burocratico e clientelare. Bersani e l’oligarchia sorda che lo circonda hanno immaginato di poter vincere le elezioni e governare l’Italia immaginando che la crisi del PdL li avrebbe favoriti oltre misura. Non hanno ascoltato Matteo Renzi e non si sono affidati a lui. Non solo perché nelle competizioni ognuno ha legittime differenti posizioni, ma soprattutto perché il sindaco fiorentino ha affermato qualcosa che nessuno prima di lui aveva osato affermare: badate che voi non siete la soluzione, voi siete, per gli italiani,  il problema, così come lo è Berlusconi.

Le elezioni gli hanno dato ragione. Gli italiani per la maggior parte hanno protestato con il vaffanculo grillino e con l’astensione, infilando il paese nelle sabbie mobili. Un gruppo dirigente
Non ossessionato dai propri personali destini, avrebbe passato la mano per permettere un governo di scopo, una riforma elettorale e il ritorno alle urne. Perché? Perché il paese ha bisogno di un vincitore certo per affrontare una  crisi che sarà di lunga durata  e non di una tomba tripolare con gli sberleffi di un comico sull’orlo del precipizio. Un vincitore certo – di centro destra o di centro sinistra non è questo il punto – che con il proprio oppositore concordi su una legislatura costituente che dia al paese un assetto istituzionale più moderno e capace di assicurare la governance anche a fronte di una grande pluralità di opinioni politiche.

La posta in gioco è questa, non altra. Allora questo aereo che si trova in stallo e può quindi avvitarsi irrimediabilmente per schiantarsi ha bisogno di piloti competenti che accompagnino questo passaggio, non la costruzione di maggioranze senza costrutto e stabilità come quelle irresponsabilmente evocate sia verso Berlusconi che verso Grillo.

Il PD deve darsi come candidato quello migliore e che unisce tutto il partito in questa prospettiva,  non blandire un’opinione pubblica resa vieppiù rabbiosa da 55 giorni ( sembrano quelli del sequestro Moro) gestiti senza intelligenza e senza trasparenza, abbandonando apertamente ogni idea di governo di lunga durata. 

lunedì 8 aprile 2013

Non serve un Midas al PD, ma un San Ginesio

Se qualcuno confida su un moto dal basso che indirizzi l’insieme del PD verso la ragionevolezza di un programma di emergenza e di un voto da tenersi tra estate ed autunno affidandosi – qualunque sia la legge elettorale – alla leadership di Matteo Renzi, nutre grandi illusioni.

Il parastato partitico del mondo della sinistra, dentro il quale è collocato ancora pesantemente il PD,  ha tutto da perdere dalla gigantesca cura dimagrante che devono fare gli istituti di rappresentanza, gli enti intermedi, tutte le sinecura inventate per sistemare capibastone territoriali, regionali, comunali, circoscrizionali. Certo circola ancora molta nostalgia ideologica,  ma è  strumentazione  polemica per nascondere  la sostanza:  gli interessi, le carriere di una miriadi di mestieranti partitici. Le nomine nelle migliaia di enti comunali, provinciali, regionali  e  i bilanci di piccole e grandi coop beneficiati da una spesa pubblica facile e dalla magnanimità delle licenze della grande distribuzione.

Per questo non appare buffo che un signore non iscritto al PD si presenti per candidarsi alla sua guida. Quella roba di cui parlavo prima lo ha già annusato ed è pronta a farlo vincere “democraticamente” nei congressi. Ma se fosse questo il disegno, cioè l’ennesimo rimpannucciamento intorno alla ditta il disastro generale per il centrosinistra sarebbe irreversibile.  

Il Paese, al di là di mirate, brevi e finanziariamente autosufficienti politiche espansive deve “risputare “ tutto quello che ha ingoiato di surplus legato alla dissipazione del denaro pubblico per cementare consenso e deve dotarsi di un nuovo sistema di govenance scegliendo un modello istituzionale più consono alle sfide che l'Europa unita richiede.  Chiunque governi. Allora la questione decisiva, rispetto all’emergenza politico sociale italiana è se gli eredi più intelligenti dell’ex PCI, pur senza l’autodafè dello streaming bersaniano grillino, abbiano un soprassalto autocritico e dimostrino compassione per l’Italia. Non è un Midas quello che serve, ma un San Ginesio. Nel bene e nel male ancora una volta è Massimo D’Alema che ha le carte che servono a un processo unitario e non scissionistico.