Il discorso del Napolitano
furioso, il giorno del giuramento, è, per la sinistra italiana, l’epifania
della ragione, la rivincita dura del riformismo nobile. Per dirla con Hegel, come lo spirito
aleggiava nella battaglia di Austerlitz, cosi l’astuzia della ragione ha
trionfato nell’emiciclo di Montecitorio. A 88 anni, il giovane studente
universitario che Amendola mise a guardia della stanza di Togliatti, nell’hotel
Roma della Napoli liberata, ha pronunciato, davanti agli oltre 1000 rappresentanti
del popolo, la più alta e vigorosa lezione politica. E non è un epilogo. È “il
discorso” che non è mai stato pronunciato prima e che tanti comunisti italiani
della mia età hanno sempre atteso dal
delfino di Giorgio Amendola.
Ed è una introduzione per una
svolta politica radicale nel PD.
Lo dico soprattutto per i tanti
giovani parlamentari eletti in questa legislatura dello stallo. Di fronte a
loro sta l’urgenza di coniugare la fedeltà ai valori fondamentali di libertà,
uguaglianza e solidarietà della nostra Carta costituzionale con la durezza del
fare il possibile, scevri dalla frase inconcludente o, peggio, dall’estremismo
infantile.
E lo dico a Matteo Renzi che più
di tutti in questi mesi ha coagulato l’insofferenza di una generazione verso il
politicismo delle oligarchie e la grettezza di una politica asfittica, senza anima,
sempre alla rancorosa ricerca dello schmittiano nemico e perciò priva di
empatia e compassione verso il proprio popolo. Il sindaco fiorentino, incarna,
anche fisicamente, la passione, e la speranza della politica intesa come sfida
che dà anche gioia - non tutte le macchine politiche gioiose sono destinate al
fallimento - percepite, nel confronto
con i volti lividi e artificiali dei capipopolo contemporanei, come messaggio
nuovo e attualissimo. E non certo risolvibile in una fiammata, in una contesa
temporanea.
Il paese è stato sfiancato e
frantumato nella propria coesione nazionale, degradato per la mancanza di cura
che lo stato doveva assicurare e che questo stato, occupato dai vecchi partiti,
si è limitato a dare a gruppi privilegiati e minoritari. Si è completamente
consumato un patto politico e sociale e bisogna ridondarlo. Occorre un lavoro
di lunga durata per cambiare questa Italia. Per questo gli innovatori hanno
bisogno di un PD nuovo. Non basta, come io spesso ho reclamato, il ritorno allo
spirito fondativo. Troppo è accaduto da quel lontano 2007, per pensare che si
riaccenda un’alchimia virtuosa. Troppe le ossificazioni di grammatiche e stili
per pensare che questi possano convivere ancora dentro un’unica cornice
organizzativa e politica. Il PD nuovo, i suoi dirigenti e i suoi militanti
devono costruire, a partire dalla rigorosa lettura da quello che è accaduto non
dalle dimissioni di Walter Veltroni - dentro i partito, nelle istituzioni e nel
paese – ma da oltre un ventennio, le
regole che fondano la Terza Repubblica e
danno alla nazione italiana la bussola e gli strumenti per navigare nel futuro
del XXI secolo, dentro cambiamenti inediti che modificheranno, equilibri geopolitici, egemonie e divisione
internazionale del lavoro.
La terza Repubblica non può che
essere presidenzialista, con un Presidente eletto come il Sindaco d’Italia, con
una Camera dei deputati dove siano rappresentati proporzionalmente le opinioni
politiche degli italiani per affrontare l’attività legislativa, con un Senato
come Camera delle regioni e delle autonomia locali, con una netta separazione del potere esecutivo
da quello legislativo e giudiziario. Abbiamo bisogno, per tentare di mantenere il
peso e ruolo che la la nostra intelligenza lavorativa e imprenditoriale si è conquistata dal dopoguerra, di una
governance legittimata direttamente dal popolo, non impiombata dalla pluralità
delle diversità politiche nella propria azione di governo ma democraticamente
temperata e capace di competere nella velocità delle decisioni che il processo
di costruzione degli Stati Uniti d’Europa ci impone.
Quello che è avvenuto negli ultimi
tre anni ci parla di un presidenzialismo che è già in qualche modo costituzione
materiale: è nascita di cui il nuovo PD deve essere levatrice.
Cosa sarebbe accaduto se non
avessimo avuto Giorgio Napolitano in gran parte del suo primo mandato? E di
fronte allo stallo di posizioni inconciliabili tra di loro, nel Parlamento,
cosa sarebbe accaduto al nostro sistema democratico senza il mandato bis al
vecchio dirigente del PCI? E nel momento stesso del dibattito quirinalizio,
quale era lo spirito che informava la pressione di strati ampi di opinione
pubblica - al netto della cinica
strumentalizzazione grillina – intorno a figure qualitativamente alte della
società civile, se non un volere irrompere dentro regole costituzionali che
obbligavano ad altri e più mediati percorsi?
Si dirà che questo è accaduto per
la eccezionalità della situazione politica creatasi con il tripolarismo
parlamentare, ma questo rilievo non cambia la sostanza di quello che è avvenuto,
anche perché in questi anni, nonostante le varie leggi elettorali non abbiamo
assistito alla semplificazione del sistema partitico. Anzi. Sia la storia francese che quella italiana ed
europea stanno lì a dimostrare che le opinioni organizzate in partito si
moltiplicano e non solo per interessi meramente corporativi. Ma anche in questo
caso. Anche se la frantumazione partitica fosse esclusivamente corporativa, a
maggior ragione dovremmo organizzarci per impedire che i possibili stalli
affossino l’intero sistema paese.
Cosa dovremmo temere da un
sistema presidenziale alla francese? Limitazione dei diritti del Parlamento?
Limitazione del potere giudiziario? Non sembra che questo sia avvenuto – e sono
ormai passati sessanta anni – in Francia. Anzi, lo spirito repubblicano ha
sempre fatto argine all’insorgenza antisemitica, fascistica e xenofoba che lì ha preceduto analoghi fenomeni
nostrani.
La storia non fa salti ma quando
una soluzione nuova è matura dentro la testa dei cittadini, ostacolarla diventa
impossibile ed ha come effetto solo la semplificazione violenta e senza regole.
Siamo di fronte a qualcosa di così esteso - come è accaduto per l’odiato finanziamento
pubblico dei partiti - che è vano esorcizzarlo con richiami a principi
mostratisi nei fatti inetti o peggio con il richiamo, ancora una volta, al baubau
di Arcore, ritenuto immortale.
Partito nuovo, dunque, che si
proponga di dare al Paese una nuova bussola. Un partito che ispiri e accompagni
l’avvento di un nuovo personale politico democratico, dal profilo alto, competente,
tecnico-scientifico, sperimentatosi nella soluzione dei problemi complessi, non
nella demagogia e nella contemplazione della propria irriducibilità ideologica.
Aperto, dunque, verso tutti, plurale, ma disciplinato nelle scelte e nelle
decisioni, liberato dalle correnti, culturalmente autonomo dalle pressioni di
poteri esterni. Non è il principio d’ordine che bisogna ricostituire, bensì
quello di maggioranza omogenea. Deve valere, al proprio interno, per i gruppi
dirigenti via via prevalenti, quella stessa vocazione maggioritaria che lo
caratterizza all’esterno. L’introduzione delle primarie affianco ai congressi
affida al vincitore la direzione e gli strumenti per realizzare i progetti
sottoposti al voto, senza i condizionamenti dei perdenti. Al tempo stesso
occorre tener separato il timone del partito da quello della premiership da
individuare con le primarie.E questo deve valere sia nazionalmente che
localmente, nel rispetto più rigoroso della legalità statutaria. Le pubbliche
elezioni diventano il banco di prova. La sconfitta in esse obbliga al
fisiologico ricambio.