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giovedì 7 agosto 2008

Racconti - Mimosa e Platano -

Mimosa e Platano erano amanti. Entrambi sposati, entrambi genitori di figli a loro volta genitori. Si erano conosciuti a una sagra di un paese degli Appennini. Una delle mille sagre dei mille paesi che fioriscono arroccati sui mille monti che tagliano la penisola da nord a sud. Era una sagra di poeti a braccio e vi accorrevano i sognatori da tutto il mediterraneo. Mimosa e Platano decisero di parteciparvi, già avanti negli anni, perché si sa la poesia non ha età né luoghi obbligati e quando ti prende ti trascina via.Quando Mimosa salì sul Palco musicale che si ergeva al centro della villa comunale del Paese che c’è - un palco pieno di luci sfavillanti e di stucchi dorati con motivi floreali, strumenti musicali e putti dalle piccole guance gonfie – i paesani si tacquero. La vista di quella donna minuta e leggiadra e dei suoi grandi occhi sognanti attirò l’attenzione di uomini, donne, vecchi e bambini. Anche i baffuti carabinieri, con i loro sciaboloni da cerimonia, messi a guardia della scaletta d’accesso dalle Locali Autorità, non poterono fare a meno di voltarsi.I versi declamati da Mimosa, con una voce che sembrò agli astanti appartenere a un angelo, aleggiarono, nell’aria fresca della sera, come ali di farfalla, per trasformarsi, nel finale, in petali profumati di rose lanciati, dalla balaustra del palco, da bambine in tutù di candido tulle. Erano tempi nei quali andavano di moda i teosofi e le loro classicheggianti sceneggiature arcadiche. I più distratti, presi dalla poesia, gridarono al miracolo e si spellarono le mani in grandi applausi.Tra i plaudenti c’era Platano, un pezzo di marcantonio, alto e corpulento, dalla bella testa da antico romano e le basette ricciolute. Platano era in fila tra i poeti partecipanti alla sfida. I versi, la voce e la figurina di Mimosa, fragile come una porcellana, gli catturarono il cuore per sempre. La platea osannava la poetessa e numerosi erano le richieste di bis. “Ancora, ancora! Cantaci ancora le tue poesie, Tuttocchi ! “ Così in molti l’avevano immediatamente soprannominata, incantati dai grandi e profondi occhi neri. Subito dopo, Platano salì sul Palco musicale. Quando Mimosa lo vide andare verso di lei, per prendere il suo posto sul podio, guardò quello sguardo ardente che le gridava silenziosamente tutto l’amore del mondo, ed ebbe un improvviso deliquio.Platano si slanciò verso di lei e l’afferrò con le sue forti braccia prima che potesse cadere. Per un attimo la folla di spettatori ammutolì. Poi, quando Platano, con il suo slancio rapido e leggero come il vento, evitò a Tuttocchi una rovinosa caduta, il tripudio salì alle stelle. Nessuno, tra i presenti, se la sarebbe mai aspettata tanta prontezza di riflessi da un omone così grande e tutti capirono che qualche forza misteriosa aveva dato all’uomo l’energia necessaria.Anche il marito di Mimosa - un uomo elegante, distinto, dai modi misurati e con una catena d’oro massiccio che gli attraversava il gilet - accorse in soccorso della sposa. Quando la raggiunse, dopo che i Carabinieri di guardia ci avevano messo un po’ di tempo a capire chi fosse, era ormai troppo tardi: il cuore di Mimosa batteva solo per Platano. Qualcosa l’uomo intravide, guardando gli sguardi fusi di Mimosa e Platano, ma l’intervento degli organizzatori, preoccupati che la sfida dei poeti continuasse, evitò che l’intuizione s’allargasse per lasciare il posto a una drammatica certezza.Arrivò il momento di Platano. Se i versi di Mimosa erano stati i messaggeri alati di un cuore in attesa e prigioniero dei sogni, quelli dell’uomo furono la risposta di un’anima catturata dall’amore improvviso e definitivo. Una sinfonia di passione sensuale e struggente calò sulla gente sempre più numerosa. Le donne si sentirono percorrere da brividi. Le più giovani, non ancora maritate, guardarono i loro promessi per capire se dentro di loro albergasse qualcosa di simile; le mogli piantarono negli occhi dei mariti sguardi inquieti e pieni di rimprovero; le più vecchie, senza speranze da coltivare, si lasciarono cullare da quei versi, sopraffatte da una nostalgia malinconica.Quando la voce profonda di Platano, resa ancora più roca dalla sua passione per i sigari, si zittì, quella tempesta impetuosa, come di mare ribollente di energia e di vita, aveva a tal punto scosso gli animi che un improvviso smarrimento s’impossessò degli astanti. Sembrava che tutti dicessero a se stessi: “ E ora cosa accadrà?” Poi fissarono l’uomo al centro del Palco musicale. Le luci sembravano ora meno luminose intorno a quella figura ancora scossa che ardeva come una torcia.L’ovazione arrivò lunghissima e scrosciante e ognuno pensava che Platano sarebbe stato il vincitore della sfida di quell’anno. Nessuno fece caso al parlottare fitto delle Locali Autorità - il Parroco e il Sindaco in primis - sedute tra la Giuria. Ma chi era nei pressi non poté fare a meno di ascoltare la filippica del prete contro l’eccessiva carnalità dei versi di Platano e la subdola perfidia con la quale mise in guardia gli uomini della Giuria sui pericoli di un Amor profano da sempre infernale seduttore delle donne. - Meglio premiare qualche poeta meno appassionato e trasgressivo e più rispettoso degli amori santificati con l’acqua benedetta.- furono le parole del prelato.Platano, a dispetto di quanto decretato in cuor suo dal pubblico, non vinse la gara. Ma di questo l’uomo non si curò minimamente. Tutti i suoi pensieri erano per Mimosa: quella sera era nato, tra loro, un legame indistruttibile.Ogni anno, negli anni che seguirono, Mimosa e Platano parteciparono alla gara di poesia del Paese che c’é. Con il pretesto della fragilità dei suoi polmoni, Mimosa aveva convinto il suo distinto consorte che un mese di buona aria dei monti dell’Appennino non avrebbe potuto che giovarle. Per ottenerne il consenso gli promise di rinunciare a tutte le gare di poesie alle quali lo costringeva ad accompagnarla. Il marito, che seguiva la moglie in quelle gare con una malcelata disapprovazione per quella che, da pratico ed efficiente uomo di mondo e di affari, considerava una romanticheria adolescente, fu oltremodo contento di quella soluzione. Pur conservando, in fondo all’anima, una qualche inquietudine sulle ragioni del deliquio di Mimosa, prevalse in lui l’abitudine a non curarsi troppo degli effetti che i movimenti dell’animo di una donna sensibile potevano scatenare.Fu così che i paesani del Paese che c’è, ogni anno, un mese prima della Sagra, vedevano scendere dalla corriera, un giorno dopo l’altro, la figurina di Mimosa e il corpaccione di Platano. Prendevano alloggio in due distinte locande e gli inservienti avevano il loro bel da fare per portare la grande quantità di cappelliere, borse e bauli da viaggio che i due amanti recavano con sé. A vedere quella smisurata teoria di bagagli sembrava, ogni volta, che Mimosa e Platano avessero deciso di trasferirsi per sempre nel paese dove era nato il loro amore. Puntualmente ogni anno, dopo la gara di poesia, prima Platano e poi Mimosa, risalivano sul vecchio postale che li avrebbe portati chissà dove, lasciandosi dietro una scia di malinconica delusione.Può darsi che i due innamorati, quando preparavano il loro bagaglio, fossero sfiorati dall’idea di non tornare più nelle rispettive dimore coniugali. Tuttavia questo non accadde mai e tutti in paese poterono continuare ad ammirare, negli anni che li ebbero compaesani illustri, i cappellini che Mimosa cambiava ogni giorno assieme ai suoi bellissimi scialle: sembravano ali ripiegate sul punto di trascinarsela in volo. Gli uomini del Circolo Sociale invidiarono,invece, i panciotti chiassosi di Platano e i suoi bellissimi bastoni da passeggio.Nessuno, nel Paese che c’è, poteva affermare che Mimosa e Platano avevano mai dormito, in quegli anni, una sola notte insieme. Ogni abitante, grande o piccolo che fosse, li aveva però incontrati, almeno una volta, all’alba o al tramonto, lungo i sentieri profumati dei boschi, mano nella mano, con la testa di lei appena appoggiata sul petto di lui e gli occhi ridenti. Tutti giuravano, dopo quegli incontri, che l’aria, intorno alla coppia, riluceva e incorniciava gli amanti in un cerchio splendente.Poi un giorno la corriera si fermò nella piazza del Municipio e ne scese il distinto consorte di Mimosa con la sua catena d’oro al gilet, ancora più grande e massiccia di sempre. - Deve valere almeno duecento lire. - disse lo Speziale, sulla porta della bottega, indicandola al Segretario comunale. Poi la loro attenzione fu catturata da due donne vestite da infermiere che aiutarono a scendere, sorreggendola, Mimosa. Pallida, quasi diafana, lasciava intravedere, sotto le falde fluttuanti di un cappello di tulle nero, in fondo ad occhiaie ancora più scure e profonde di sempre, gli occhi ardenti che avevano conquistato la folla tanti anni prima.Tuttocchi sembrava malata, smagrita fino all’inverosimile. Ma non aveva perduto quella tenera aria di passero che aveva intenerito chiunque nel paese avesse un cuore buono. La notizia si sparse in un batter d’occhio. Ognuno aspettava di capire cosa stesse accadendo; il significato della presenza inaspettata del marito e se la malattia di Mimosa potesse esserle fatale. Con ansia gli occhi si appuntarono sulla corriera del giorno dopo per vederne scendere Platano. Inutilmente. Né quel giorno né i giorni dopo. Nessuno avrebbe più visto il poeta dai panciotti colorati né i suoi artistici bastoni.Trascorse una settimana con il fiato sospeso. I perché si affollavano nella mente e nei discorsi di tutti, ma dalla locanda, dove Mimosa, il consorte e le infermiere erano alloggiate, non filtrava alcuna notizia. D’altro canto, pur pungolati da tanti interrogativi, l’amore per i due poeti amanti fece sì che nessuno permettesse alla curiosità di trasformarsi in pettegolezzo e disturbare la sofferenza di Mimosa. La si vide ancora qualche volta. Appoggiata al braccio del marito, con le due infermiere sempre vicine, ripercorrere faticosamente i sentieri che l’avevano vista confondersi con Platano. Qualcuno giurò che le sue labbra erano accese da un tenero sorriso e le sue gote arrossate.Poi la notizia giunse ferale al finir dell’estate: Mimosa se n’era andata, al tramonto, tra le braccia del marito che non aveva mai smesso di starle accanto. Le Locali Autorità decretarono tre giorni di lutto cittadino, quanti ne erano toccati alla morte del Re. Il Parroco protestò perché i funerali non si sarebbero svolti in chiesa, ma le Locali Autorità, votandosi ormai a suffragio universale, pensarono bene di rispettare il dolore unanime dei loro elettori e non si curarono delle lagnanze.Una giornata di cielo azzurro e di voli di storni a disegnare l’aria, accompagnò le esequie. In molti avevano sperato che, almeno per quel giorno, Platano tornasse accanto alla sua amata poetessa. Invano. Fu allora che nei cuori più sensibili s’affacciò l’idea che il poeta fosse morto e che la sua morte aveva trascinato con sé quella di Mimosa, il cui cuore non aveva voluto continuare a vivere. Per quante indagini io abbia fatto, quando qualche anno dopo sono capitato nel Paese che c’é e ho appreso questo tenero episodio d’amore, non sono riuscito a svelare il mistero della scomparsa di Platano. Morto prima di Mimosa? come pensavano i più romantici o semplicemente scomparso perché la passione si era esaurita? come suggerivano lo Speziale, il Prete e il Maresciallo dei Carabinieri ? Credo che ognuno possa immaginarsi ciò che la propria natura gli suggerisce.Comunque le Locali Autorità hanno istituito un premio annuale di poesia e lo hanno intitolato All’amore eterno di Mimosa e Platano. Il Parroco, naturalmente, si è opposto.

mercoledì 30 luglio 2008

Racconti - La corsa tra la cavalla e la corriera -

Ogni anno, la prima domenica dopo Pasqua, nel vecchio borgo di S. Maria di Galeria si svolgeva una grande festa e vi arrivavano le famiglie di Osteria Nuova, di Cesano e dei casali sparsi tra la via Boccea, la Braccianese e la Cassia. Quella domenica di Aprile del ’43 Alfio e Mario Marini s’erano recati al vecchio borgo, tirati a lucido, su un calesse al quale Alfio aveva attaccato un cavalla di quattro anni, del padre Salvatore. I due cugini, poco più che adolescenti, tutti e due dai capelli chiari e con la pelle bruciata dal sole della campagna romana, erano figli più piccoli di Salvatore e Vincenzo Marini: due fratelli, allevatori di pecore, stabilitisi a Cesano con il padre Giuseppe, i fratelli, le sorelle e gli zii, da Acquacanina nelle Marche, nella seconda metà dell’Ottocento. Alfio e Mario vevano in mente di passare una giornata in allegria dietro le sottane di qualche giovinetta del contado, buttandosi alle spalle la dura fatica quotidiana di allevatori e le ansie alimentate dalla guerra in corso. Sul finire del pomeriggio, vuoi per il ponentino che accendeva il suo carattere ardente, vuoi per l’effetto dei numerosi bicchieri di vino con i quali aveva innaffiato un paio di abbacchi alla brace, Alfio si girò verso l’autista che guidava la corriera in servizio tra Cesano e Osteria Nuova e lo sfidò a una gara di corsa con il suo calesse, nel tragitto di ritorno. L’autista guardò il giovane spavaldo e gli scoppiò a ridere in faccia, prendendolo per matto. Incitato però dai passeggeri, inciucchiti dal vino che era scorso abbondante, e da quanti, incuriositi dalla stravaganza dell’idea, s’erano radunati attorno alla corriera e al calesse, decise di accettare; non senza aver dato una occhiata indagatrice alla cavalla massiccia e mansueta che, inconsapevole di quanto stava per accadere, era concentrata a strappare qualche filo d’erba dall’orlo della cunetta. Al conducente la cavalla sembrò tutt’altro che gagliarda trottatrice capace di impensierire il suo otto cilindri, uscito, lucido e rombante, appena quattro anni prima, dalle Officine Meccaniche.

Ebbe inizio così la gara tra la cavalla e la corriera. A compensare i lazzi e i fischi dei molti che non scommettevano un soldo bucato sul biondino di Cesano, c’erano gli sguardi ammiccanti e i gridolini di gioia delle numerose giovinette da marito che si mangiavano con gli occhi i due cugini a cassetta; e soprattutto l’entusiasmo dei tanti fanciulli che subito avevano preso partito per la cavalla in quella inusitata sfida dal sapore antifuturista. ed ecologico. La corriera partì sbuffando e con uno stridore così lamentoso che ad ogni cambio di marcia sembrava che i bulloni del banco motore stessero per saltare. Tuttavia ai primi trecento metri, dal momento che la cavalla sembrava non aver alcuna voglia di andare e la strada dritta favoriva la progressione del mezzo meccanico, Alfio e Mario Marini si ritrovarono avvolti da una nuvola di polvere e a respirare il fumaccio nero che la marmitta gli sputava addosso senza riguardo alcuno per i nostri giovani eroi. Una simile partenza fu accolta con soddisfazione dai tanti che avevano subitaneamente bollato la sfida come impossibile e parimenti con cocente delusione dalle giovinette da marito, ognuna delle quali già sognava di conquistare uno dei due fantini. A mantenersi intatto era rimasto, come spesso avviene in tante vicende della vita, l’incitamento dei più piccoli, i quali correvano dietro il calesse quasi volessero aiutarlo, spingendolo con le loro grida. Sembrava dunque che quella tenzone così temeraria, che per un momento aveva acceso la fantasia e l’animo di quelli più disposti a sognare, stesse volgendo a favore della macchina e a molti, tra quelli assiepati alla partenza, non scorgendosi ormai il teatro della corsa, fu facile dare per scontata la sconfitta della cavalla e dei suoi improvvidi conducenti.

Si sa che la vita riserba sempre grandi sorprese e a poche centinaia di metri dall’arrivo avvenne il miracolo che capovolse gli eventi. Nel rettilineo, che precedeva la grande curva a gomito prima del ponticello sulla ferrovia, la cavalla aveva innescato un trotto serrato e potente e riusciva a non rompere nonostante la pressione che Alfio continuava a metterle addosso con urla, redini e frustino. A vederla così, tesa nello sforzo e armoniosa nei movimenti, non aveva più nulla del tranquillo animale della partenza. Sembrava che tra i due giovani a cassetta e la cavalla si fosse stabilita una simbiosi: la pazza idea di battere la macchina univa i due uomini e l’animale. Sarebbe stato sufficiente questo spunto incredibile, questo sforzo comune a permettere di recuperare il ritardo? No, nonostante la cavalla procedesse con rabbia sovrannaturale, schiumando sudore e prossima a scoppiare, nessun sorpasso sarebbe stato possibile se l’autista avesse avuto nel cuore il sangue sufficiente a non fargli scalare le marce e a non frenare all’imbocco della curva.
Fu così che i passeggeri affacciati ai finestrini e i pochi, scesi dal treno, che aspettavano la corriera sul piazzale della stazione, furono testimoni dell’impensabile sorpasso del postale da parte della cavalla.

mercoledì 23 luglio 2008

Racconti - Il mistero del "cuarto frio"-


Capitolo 1



Juan Baptista Urraca, vedendo la grande luna piena che risplendeva sul reef, decise di andarsene a calare le nasse.
Da Panama, l’agenzia turistica gli aveva annunciato l’arrivo di un gruppo di europei. Se pescava un po’ di aragoste, il villaggio poteva contare su qualche dollaro in più di quelli che gli lasciava solitamente Manuel Avila, il panamense che trasportava turisti dalla capitale all’arcipelago di San Blas.
Andò sulla piccola spiaggia e spinse in acqua la sua piatta canoa. L’aveva interamente costruita con le sue mani per il nipote Mateo, quando questi aveva compiuto gli anni giusti per cominciare ad imparare dal nonno come costruirsi una canoa e muoversi tra i trecentosessantacinque isolotti bagnati dalle acque del golfo del Caribe.
Con la sua pagaiata forte e regolare Juan Baptista raggiunse in pochi minuti la barriera corallina e accostò per iniziare il suo lavoro. La luna illuminava il mare meglio di quanto non facesse il gruppo elettrogeno a gasolio con le capanne del villaggio e i grandi bungalow utilizzati per accogliere i turisti. E soprattutto non spandeva intorno il suo fumo maleodorante. Non s’era mai abituato a quell’aggeggio rumoroso e puzzolente ma gli riconosceva una qualche utilità. Soprattutto per via del piccolo e attrezzato ambulatorio, costruito da qualche anno sulla sua isola, che rappresentava, per i villaggi kuna sparsi nell’arcipelago, il solo presidio per le emergenze più gravi..

Juan Baptista Urraca era il Sahila del suo villaggio. Assieme agli altri capi kuna conosceva perfettamente i rischi di estinzione che correva il suo popolo. Senza vaccinazioni e interventi medici preventivi, le malattie tropicali avrebbero continuato a decimarli. Per questo riteneva saggio utilizzare le conoscenze e le tecniche della medicina della città. Così come apprezzava, soprattutto quando c’era un malato grave o un villaggio era stato isolato da un uragano, la possibilità di usare, per piccoli aerei, le piste ricavate dalla distruzione di alcuni ettari di lussureggiante vegetazione. Quante volte si era scontrato nelle assemblee con i giovani della sua comunità. I più radicali sostenevano che i rischi più grandi per la autonomia dei Kuna stavano nei disegni delle grandi compagnie turistiche con i loro progetti di alberghi da mille stanze. Inoltre la loro sopravvivenza era minacciata dai cartelli che controllavano il traffico di droga attraverso la regione del Darien, il grande polmone verde tra la Colombia e Panama. Quelle piste favorivano i legami con il continente e attiravano gli speculatori. C’era chi ricordava i trasbordi di casse dagli aerei atterrati all’improvviso, di notte, sulla loro isola, verso grandi motoscafi attraccati oltre il reef, lamentando l’inefficienza dei guardacoste panamensi. Immancabilmente Juan Baptista prendeva la parola. Con voce calma e ferma, che placava le più accese discussioni, ogni volta concludeva: “Se non avessimo il nostro ambulatorio e i buoni medici delle associazioni umanitarie, quelli che vogliono le nostre terre non dovrebbero faticare tanto per prendersele. Dovrebbero solo avere la pazienza di attendere gli effetti delle epidemie e della denutrizione”
Ampliare e arricchire l’ambulatorio, per la sopravvivenza stessa dei Kuna, era la missione di Juan Baptista Urraca. Il più instancabile tra i capi dei villaggi nel raccogliere fondi e nel sollecitare l’intervento del governo centrale ma anche delle istituzioni mondiali come l’Unesco e le grandi Associazioni ambientaliste. Quest’ultime, soprattutto, mostravano, verso i Kuna, una grande sensibilità. In questi rapporti squisitamente politici, Urraca mostrava di essere lucidamente consapevole della forza - che pure sembrava a molti giovani impalpabile e astratta - a disposizione della sua gente. La forza della legge che riconosceva al popolo kuna uno status e una autonomia speciali. Grazie a questo diritto tutti i progetti per la edificazione di grandi alberghi e villaggi turistici di massa, prologo della distruzione di una natura incontaminata e dell’asservimento delle popolazioni indigene, erano rimasti nei cassetti degli uffici studi delle compagnie. Qualche assessore, per lucrare provvigioni, aveva avventatamente promesso di poter convincere il popolo dell’arcipelago a dare l’autorizzazione finale, ma inutilmente. Il pescatore, dal corpo minuto ma scattante e muscoloso, che si stava immergendo tra gli scogli per calare e ancorare le sue nasse, era senza ombra di dubbio un capo politico saggio e rispettato non solo nell’arcipelago di San Blas.



Capitolo 2

Mentre si accingeva a risalire sulla canoa per tornare al villaggio, Urraca sentì avvicinarsi, da ovest, una lancia dal motore molto potente. Qualcosa nella mente gli consigliò di mantenersi defilato e di non farsi scorgere. Si appiattì dove gli scogli formavano una sorta di arco, ad un’altezza di circa quattro metri. Da quel punto prese a spiare le mosse della lancia che nel frattempo aveva spento il motore fermandosi al di là della barriera corallina, verso il mare aperto, distante una quindicina di metri dal suo posto di osservazione. A bordo c’era un uomo solo. Alto e massiccio, un berretto di lana da marinaio calcato fino alle orecchie, con un giubbetto scuro e un paio di pantaloni di un colore più chiaro che gli arrivavano poco sopra le ginocchia. L’uomo che aveva dato la fonda alla lancia con la prua rivolta verso nord, accese e spense più volte un faretto attaccato al parapetto.
Dopo qualche minuto, Urraca percepì di nuovo il suono di un motore e di lì a poco, scorse, a nord, la prua bianca di un motoscafo d’alto mare. La nuova imbarcazione governò rapidamente e con molta perizia accostandosi di poppa alla lancia in attesa.
Sempre appiattito nella sua nicchia di scogli, il kuna vide un uomo scendere attraverso una piccola passerella sulla prima imbarcazione, mentre altri due restavano in piedi sul ponte imbracciando due fucili mitragliatori con le canne abbassate. Se avevano qualcosa da temere, dunque, questo qualcosa non proveniva dalla barca in attesa. Il nuovo arrivato aveva capelli corti e chiari, pantaloni lunghi e una giacca a vento chiara e teneva sotto un braccio qualcosa che somigliava a una scatola, apparentemente metallica, rettangolare e lunga una trentina di centimetri. Sentì i due uomini salutarsi con una certa familiarità e capì dall’accento che il navigatore solitario era nordamericano. L’uomo con il berretto prese la piccola scatola e appoggiandola su una gamba l’aprì per controllarne il contenuto. Di nuovo i due si salutarono separandosi. Non appena l’uomo in giacca a vento fu a bordo, la potente imbarcazione riaccese i motori e virò nella direzione dalla quale era venuta. Il nordamericano,invece, sembrava non aver fretta. S’era acceso una sigaretta e, seduto al posto di guida, osservava le stelle. Dopo qualche boccata, si diresse verso poppa e cominciò a levare l’ancora. Fu in quel preciso momento che da uno degli atolli a est della barriera emerse dal nulla la sagoma di quella che aveva tutta l’aria di una motovedetta militare. A prua, accanto ai parapetti, si scorgevano uomini armati, con berretti a visiera e tute di tipo militare dal colore verdescuro . Un faro potente si accese, inquadrando la piccola lancia, quando la motovedetta era ancora a un centinaio di metri. Urraca cominciò a spostarsi verso il lato sinistro dell’arco naturale, dove si era riparato, per nascondersi completamente alla vista della motovedetta. L’ultima cosa che vide fu l’uomo con il berretto che faceva scivolare in acqua, dal lato della poppa, la scatola che aveva ricevuto. Nascosto, con il corpo accovacciato tra gli scogli, il kuna poteva solo ascoltare i rumori concitati di un abbordaggio in piena regola da parte degli uomini in tuta.
Dalle intimazioni, urlate da quello che doveva essere il capo del gruppo degli assalitori, capì che sapevano della consegna. Lo raggiunsero altri rumori, altre grida minacciose poi una raffica breve. Seguirono per alcuni minuti ordini secchi misti a imprecazioni e un trapestio dal quale comprese che stavano frugando l’imbarcazione. Trascorse una mezzora lunga un secolo prima che la voce rabbiosa dell’uomo che dirigeva il commando desse l’ordine di ritirarsi. Ancora pochi minuti e sentì il rombo del motore della motovedetta che virava. Come di incanto la scogliera si accese improvvisamente di riverberi sanguigni. Avevano dato fuoco al motoscafo. Continuò a rimanere nascosto dov’era fino al sopraggiungere di una violenta esplosione seguita da una pioggia di frammenti incandescenti scagliati sugli scogli. Solo allora cominciò a scendere cautamente dirigendosi poi a nuoto verso il punto dove aveva accostato la canoa.
Al villaggio Urraca ebbe il suo da fare per tranquillizzare gli animi, senza per altro far parola del fatto che era stato involontario testimone di qualcosa di grave e misterioso. Alcuni giovani, che si erano spinti con le loro canoe sul luogo dell’esplosione, tornarono dicendo che se l’imbarcazione esplosa aveva a bordo delle persone, nessuno di essi era sopravvissuto né c’era traccia alcuna dei loro corpi.
Bisognava avvertire comunque le autorità a Panama e Juan Baptista provvide a farlo personalmente utilizzando la radio dell’ambulatorio.
- No - disse al funzionario che dall’altro capo della radio chiedeva dettagli - c’è stato un incendio oltre la scogliera e poi una esplosione fortissima. Si, dai frammenti potrebbe trattarsi di una imbarcazione, ma non sappiamo altro: siamo stati svegliati dall’incendio. No, non ci sono corpi. Bene, aspetteremo i vostri investigatori.-
Urraca dormì poco quella notte. Pensò che la cosa migliore era di non dire neanche alla polizia panamense quanto aveva visto. I padroni di quel tratto del Caribe erano i narcotrafficanti e i gringos, i nordamericani; e con gli uni e gli altri era meglio per un kuna non avere a che fare. Quella scatola che era passata di mano doveva contenere qualcosa di molto importante se l’uomo del motoscafo aveva preferito buttarla in mare piuttosto che consegnarla. E per questo probabilmente era morto. Ma gli altri chi erano? Narcotrafficanti ? Guardacoste colombiani? O addirittura panamensi? Decise che valeva la pena aspettare le prime luci dell’alba per immergersi in quel tratto di mare, sotto l’arco di roccia, per cercare quella piccola scatola argentata.

martedì 15 luglio 2008

Appunti di viaggio - Campo Alegre

L’aereo da Bogotà per Curaçao è pieno di giovani donne colombiane. Vivono a Bogota, a Cali, a Santiago de Barranquilla. Per molte di loro la prima tappa è Campo Alegre a Curaçao, il più apprezzato bordello dei Caraibi. Altre rimbalzeranno verso Aruba, Bonaire, Saint Martin, Santo Domingo, tappe obbligate dei croceristi europei e nordamericani. Vanno a fare la vita con la stessa determinazione delle mondine venete quando si spostavano in treno verso il vercellese, ormai impoverito di manodopera dalla crescita dell’industria automobilistica.
I voli sono sempre in overbooking per la grande abbondanza di richieste e il mio aereo è animato da un chiacchiericcio allegro che coinvolge anche gli altri passeggeri. Il personale di bordo, rassegnato al continuo via vai, tra una fila e l’altra, non interviene più con le sue cantilenanti raccomandazioni. Scie di profumi, intensi e dolciastri, si impossessano delle narici, stravincendo sui miasmi di kerosene. Ombelichi che tracimano da jeans incollati alla pelle; seni siliconati e natiche rotonde e rigogliose, come cocomeri, ballonzolano all’altezza degli occhi dei passeggeri e si strofinano allegramente sui vicini quando las chicas entrano nella fila o ne escono. Ci sono anche alcune coppie, parejas; lui e lei fisicamente splendidi, quasi tutti meticci: una volta a Campo Alegre si separeranno e lavoreranno nel bordello che ha una sezione per turiste emancipate, in cerca di emozioni forti.

Mezzora prima dell’atterraggio, come d’incanto, cade il silenzio. Ognuna delle giovani donne, con il suo beauty case sul ripiano, si concentra nel maquillage della bocca e degli occhi, esaltando, con colori vistosi, l’aggressiva sensualità dei volti. Qualcuna addirittura cambia pantaloni e top, con una sosta veloce nella toilette. L’ultimo atto è il riempimento della carta di sbarco. La professione dichiarata è identica per tutte : secretaria de impresa. A crederle sulla parola sembrerebbero l’avanguardia di una convention dell’impresa latino americana. Ma forse è proprio così : il turismo sessuale è un settore fiorente e crea posti di lavoro.
La ragazza che mi siede accanto è anche lei una secretaria. Ma non si è preoccupata di truccarsi. Durante tutto il viaggio. si è lamentata, massaggiandosi lo stomaco e il ventre. Ho il sospetto che sia una bolitera. Si chiama così, chi trasporta, ingoiandoli, qualche decina di ovuli di plastica pieni di cocaina. A volte gli involucri, attaccati dai succhi gastrici, si rompono prima che la malcapitata possa liberarsene per vie naturali, causandone la morte da overdose. I ritardi imprevisti, durante un viaggio dalle Antille all’Europa, sballano i conti del bolitero, condannandolo a una atroce agonia.

domenica 6 luglio 2008

Racconti - Sor Massimo Alcesti -



All’escursionista che s’avventurasse sul Monte Soratte e, incamminandosi lungo il Percorso degli eremi, avesse la disavventura di perdersi all’altezza delle Carbonare, potrebbe occorrergli la sorte di incontrare un eremita, dal volto incorniciato da lunghi e bianchi capelli e interamente coperto, fin quasi sotto i piccoli e ardenti occhi neri, da una barba arruffata e ispida e altrettanto candida. Ad eccezione dei baffi, fortemente ingialliti. Se, conquistandone la fiducia, il nostro escursionista, riuscisse a trascorrere con l’originale vegliardo una qualche ora del suo tempo, scoprirebbe che la causa di siffatto giallume è da imputarsi all’abitudine, contratta in giovane età e mai abbandonata, di concedersi robuste e voluttuose fumate di sigari. Ma sarebbe, questa scoperta, la cosa invero meno rilevante a petto della scoperta, nel corso della conversazione, della smisurata e poliedrica cultura che il vecchio barbone mostrerà di possedere con salda e inaspettata lucidità, accanto a idee altrettanto stupefacenti per la stravagante bizzarria.

M’è capitato di incontrarlo la notte tra il 21 e il 22 di giugno, la notte delle streghe, dopo che il mio pezzato, scartando a causa di un’istrice improvvisamente paratasi lungo il sentiero, mi aveva trascinato in una sconsiderata galoppata dentro un fitto bosco di elci. Quando finalmente, più per la stanchezza che per i miei richiami, il cavallo decise di fermarsi, mi ritrovai in una sorta di piccola radura, sul cui lato destro spiccava una grotta rischiarata dalle lingue guizzanti di un fuoco. Sceso da cavallo, mi avvicinai, facendo attenzione a far più rumore possibile per richiamare comunque l’attenzione di chi, con tutta evidenza, aveva acceso quel falò. Fu così che conobbi Sor Massimo Alcesti. In quella notte stellata, Sor Massimo mi tenne sveglio intorno alle braci di quercia, confidandomi la ragione del suo eremitaggio. Era un cacciatore di diavoli. O meglio passava il suo tempo a scoprire dove si annidavano i nemici dell’uomo che lasciavano l’inferno per creare sulla terra una infinità di malefatte.
Aveva studiato per anni la storia degli uomini e finalmente aveva capito come i sulfurei mascalzoni riuscivano a infiltrarsi, grazie ai loro infernali poteri, tra l’ignara umanità. Di fronte alla stupefacente sicurezza delle sue ispirate affermazioni, un moto di rammarico mi colse per via della mia ordinata e laica ragione. Di fronte a quella scombinata presentazione, immediatamente, conclusi che qualcosa si era purtroppo inceppato in quel cervello per molti versi lucido e proprietario di un grande bagaglio di conoscenza. Ma dovevo trascorrere la notte al riparo e il fascino di quell’incontro, così inaspettato, mi tenne sveglio ad ascoltare le sue teorie, tra una fumata e l’altra di sigari. Qui di seguito le riporto, anche perché, prima che albeggiasse, Sor Massimo Alcesti mi condusse fuori dal bosco assieme al cavallo e, facendomi giurare di non cercarlo più per nessuna ragione, mi disse: “ Divulghi la mie scoperte: più numerosi diventeranno gli uomini consapevoli e più facilmente esorcizzeremo i diavoli nascosti!”


La Teoria di Sor Massimo Alcesti

“Devi sapere, mio caro amico, che la congrega di diavoli e diavolesse - quelli di prima categoria, i cattivi cattivi - non raggiunge la ottantina e invia ogni tanto uno di loro a visitare la terra per infliggerci pene e dolori. Lo fa manipolando temporaneamente le nostre deboli menti ancora così poco conquistate e protette da una robusta sapienza scientifica. Questi puzzolenti nemici dell’uomo sono però costretti ad assumere nomi che abbiano le stesse iniziali del loro ed è così che grazie ai miei studi ora posso riconoscerli. Preferiscono ruoli di condottieri di eserciti, di capi partito, di sette religiose, di terroristi, ma non disdegnano le cortigiane, i poeti, gli sportivi e i conduttori televisivi.. Qualche volta, agli inizi di un millennio, ne vengono inviati più di uno contemporaneamente - ma sempre quelli con il nome con la stessa iniziale – e si alleano per avere un effetto più devastante o fanno a gara tra di loro per ingannare più gente possibile presentandosi apparentemente in conflitto.
Vedo nei tuoi occhi, mio caro giovanotto, un evidente scetticismo, ma quando ti avrò fatto i miei esempi anche la tua incredulità si scioglierà come neve al sole. A meno che… “ e cacciandomi addosso i suoi occhi neri, puntuti come spilli, mi chiese “Come ti chiami? E cosa fai nella vita?” Dopo aver sentito che ero un artigiano e che il mio nome era Giorgio Giordani, il suo volto si distese visibilmente e continuò come tranquillizzato “Artigiano… Giordani… Non c’è da temere, nessun diavolo potrebbe scegliere la tua persona. Non ce ne sono con la g. Se sei un delinquente lo sei di tuo. Ascoltami, quando avrò finito con la mia lista, ti ricrederai.”

La lista diabolica di Sor Massimo Alcesti

“Dopo i primi esperimenti fatti con i faraoni Antef della II Dinastia da Adramelech, il diavolo politicamente più esperto della cacarchia e da Astarotte, gran tesoriere dell’inferno, che con Artaserse III il sacrilego, distrusse città e rapinò ori e argenti, il tentativo più pericoloso per conquistare tutta l’umanità fu fatto da Abaddon, il più crudele dei cattivi cattivi, con l’impersonificazione di Alessandro Magno. L’assalto sarebbe certamente riuscito se a soccorrere l’umanità non fosse sopravvenuto un virus che stroncò il corpo del Macedone, costringendo Abaddon a tornarsene tra le fiamme. Dopo quella tremenda lezione, l’opera dei diavoli si fece più subdola e di lungo respiro. Già qualcuno intraprendente come Behemoth, la bestia, si era provato, prima di Abaddon, a mobilitare, sotto il nome di Brenno, i selvaggi celti, ma l’inesperienza del giovane demonio si risolse, come sappiamo, in una scorribanda di breve durata, domata dalle legioni di un popolo di giovani ma umani ladroni che si andava affermando sulle rive del fiume Tevere. Dopo la cocente sconfitta del tentativo di impero unico di Abaddon, fu inviato Androalfo, esperto di matematica e geometria che con il nome di Archimede insegnò le nuove tecnologie della guerra con le quali più sanguinosi divennero gli scontri tra gli uomini.
Con Asmodeo il devastatore, di nuovo, dopo alcuni secoli. il tentativo di assalto agli uomini fu sanguinoso e vicino alla vittoria definitiva con Attila il capo degli Unni .Questa volta fu il valore di una fanciulla di Aquileia, Odabella che, uccidendo il malvagio, riuscì a salvare gli uomini. Ancora tornò Adramalech a tentare di riaprire una nuova stagione di lutti e malvagità mettendo a frutto l’esperienza di Behemoth con i selvaggi e ignoranti longobardi. Si impossessò dell’identità di Astolfo, capo urlante e volgare di quella popolazione. E fu Pipino, il re dei Franchi a rispedire il Gran Cancelliere della congrega satanica nell’oscurità da dove era venuto e ad avviare la santa alleanza con la Chiesa romana che avrebbe egemonizzato l’Europa. La sconfitta per i Longobardi, famosi - da qui il loro nome longus bardus - per la lunghezza del loro attrezzo, fu ancora più cocente visto che a batterli era stato un re che traeva il suo nome, appunto, dalla nota miseria del suo pipino.
Si susseguirono, mio caro Giordani, secoli, nei quali diavoli scalpitanti come Belfagor, Baal e Belial si esercitarono con i Borgia, Cesare e Lucrezia, e con i Bonaparte, fino alle atrocità sconvolgenti di Hutgin con il caporale austriaco Hitler; Leviathan con Lenin, Mefistofele con il maestro di Predappio, Mussolini; Satana e il suo omologo musulmano Shaitan con Saladino, Stalin, Sukarno, Saddam, Kim il Sung, e infine Ucobac che si è divertito con Ulrico, il protestante svizzero, conosciuto anche come Zwingli e con Ulbricht,il diabolico despota della Germania dell’Est.”

Mi guardai intorno, come per sfuggire al senso di inquietudine che quell’elenco strampalato mi stava provocando ma la voce tonante dell’eremita e i suoi occhi fiammeggianti mi tenevano inchiodato accanto al fuoco. “ Ma credimi, le sofferenze che abbiamo passate nel Novecento sono ben poca cosa rispetto a quelle che ci sta preparando l’arrivo in massa, in questo inizio del millennio, di Baal, Behemot, Belial, Buer, Belfagor, Belzebù. Ti posso assicurare, testi di storia alla mano, che non c’è mai stato un periodo, nella vicenda del pianeta, con una concentrazione analoga di demoni nello stesso momento e in posti di grande potere.
”Sor Massimo…lei sta insinuando che…” Ma il vegliardo agitando il suo pugno rattrappito dall’artrite non mi lasciò continuare. “Si, hai capito bene. Il più pericoloso é Baal che oggi sta in Bush jr ma si era già fatto le ossa con Bush padre; poi c’è Behemot che si è impossessato di Blair; Buer che si nasconde dietro la barba di Bin Laden, Belzebù che, prima di prendersi il massone della P2, Berlusconi, ci ha fatto soffrire, noi italiani, tirando i rigori al posto di Baggio, contro il Brasile! Lo capisci quanto sono subdoli e cinici?! Infine Belial che, in Padania, ha le fattezze di Bossi!” Non sapendo che fare gli dissi sorridendo: Ma ne ha dimenticato uno, Belfagor!
Lo feci, lo confesso, con l’intenzione di prenderlo in castagna e farne crollare la inquietante sicumera. ”Non l’ho dimenticato.” La sua voce si era fatta di colpo più bassa; le parole sembravano uscirgli a fatica dalla gola. “Il fatto è che ho persino paura di pronunciarne il nome, qui, all’aperto. Avvicinati che te lo sussurro in un orecchio.” Così dicendo si accostò con le labbra alla mia testa e sfiorandomi il padiglione infreddolito mi bisbigliò un nome.
“No, nooo…non può essere!” Gridai facendo un balzo all’indietro. “Addirittura nel campo dei Cristiani! Non ha nessun senso! Il Soratte le ha fatto perdere ogni obiettività! “
“Si, invece - ridacchiò sardonico Sor Massimo Al cesti - Si tratta ormai di attizzare l’incendio finale tra Occidente e Islam e a comandare i due schieramenti ci sono due satanassi!

Racconti - Polvere di stelle - Quarta parte

Quando Isaiah entrò nell’ufficio, Samuel non potè fare a meno di notare che il volto dell’amico era segnato da un’insolita tensione e da una luce febbrile degli occhi. Pensò che anche lui, come tutti in quei giorni, fosse preoccupato per la brutta piega che rischiavano di prendere gli avvenimenti. Non volendo affrontare subito l’argomento Beth, cercò di avviare la conversazione su temi più ravvicinati. “E’ un gran casino quello che sta succedendo Isaiah. Un vero disastro, non ti pare?” “ La situazione non è mai stata così buona: il disordine è grande sotto il cielo; la gente non sarà più ingannata.” Samuel non riusciva a credere che quelle parole, insensatamente estremistiche, fossero potute uscire dalla bocca di uno dei suoi migliori scienziati. Si, Isaiah era sempre stato, fin dal college, un radical romantico con idee socialiste. Aveva persino, in un certo periodo, espresso simpatie per le Guardie Rosse cinesi, ma era comunque dotato di un cervello di prima grandezza e non poteva non valutare i rischi catastrofici che il mondo stava correndo. Che gli prendeva?
“Maledizione! Si può sapere che vi succede? Tu straparli. La Ryan dice che non governa più le sue reazioni. Mentre l’intero sistema delle relazioni internazionali esplode per via di una infantile desiderio di verità.che si è impadronito dei leader. Piuttosto, sai dirmi qualcosa dei problemi della tua assistente ?” Samuel Lewis aveva quasi urlato quelle parole rivolto all’amico e capì che dopo l’ultima settimana di tensione gli stavano per cedere i nervi. Andò verso il mobile al lato della scrivania. Tirò fuori una bottiglia di whiskey e se ne versò mezzo bicchiere. Stava per accostarlo alla bocca quando le parole di Horowitz lo fulminarono. “ Non è desiderio di verità. E’ l’effetto di una proteina aliena.” “Ma di che diavolo parli, Isahiah? Quale proteina?” “Le particelle microscopiche di polvere riportata dalla sonda contengono una proteina che agisce sull’area del cervello che controlla il nostro sistema di comunicazione. Entra nel nostro organismo attraverso il contatto con la pelle ma anche attraverso le vie respiratorie e raggiunge, con il sangue, il cervello. Deve essere maledettamente potente perché, come puoi ben immaginare, le particelle che volatilizzano non sono numerose. Sulle cavie non hanno mostrato effetti evidenti sul comportamento. Ma i test ci hanno mostrato in modo inconfutabile che la quantità inalata si divide in tre parti pressappoco uguali: una parte si concentra nel cervello l’altre due nel fegato e nell’apparato riproduttore. Non abbiamo fatto esperimenti volontari su cavie umane. Ma non credo che ce ne sia bisogno. Io ed Elisabeth, i primi a lavorare sulla polvere, siamo già contagiati. I nostri comportamenti e quello dei capi di stato sono la conferma della mia ipotesi.”

Samuel Lewis aveva ascoltato le parole dell’amico con uno stralunamento direttamente proporzionale alla serietà della sua esposizione. Via via che riprendeva possesso della sua lucidità non poteva non convenire con lui. Alla luce di quelle informazioni, i comportamenti anomali manifestati da Isaiah stesso nel suo ufficio - il giorno dopo la visita del Presidente - e da Beth al ranch; la serie incredibile di dichiarazioni inaugurata da Bush, seguito a ruota da tutti i capi di stato ai quali avevano magnanimamente donato la polvere della cometa, trovavano una spiegazione logica. Ma se quella era la spiegazione, gli effetti potevano essere ancora più devastanti se non si prendevano immediate contromisure C’era da agire in fretta.e senza perdere tempo. Si sedette e invitò Horowitz a fare altrettanto.

“Isaiah, ascoltami. Dobbiamo predisporre un piano di emergenza. Avvertire la Casa Bianca. Studiare una quarantena ferrea del tuo laboratorio e forse anche del nostro Istituto. Informare tutti i paesi che hanno ricevuto i campioni. Basterà che tutti coloro che sono entrati in contatto con quella maledetta polvere si dimettano dai loro incarichi. Intanto chiederemo subito i fondi per un programma straordinario per la ricerca di un antidoto.” “ Samuel, Samuel aspetta. Non è ancora tutto. I biologi dicono che la presenza della proteina aliena negli apparati riproduttori sta determinando nelle cavie mutazioni cromosomiche degli spermatozoi e degli ovuli. Mentre sembra che l’organismo abbia cominciato a riprodurre la proteina e a disperderla nell’ambiente attraverso i fluidi biologici e la respirazione. Questo significa due cose: ci saranno mutazioni permanenti che modificheranno le caratteristiche cerebrali dei nascituri, che saranno predisposti a dire sempre la verità e che, nel frattempo, il contagio crescerà in forma esponenziale.”
“Mi paiono conclusioni troppo affrettate. Per il momento non sono segnalati casi di contagio trasferito da quelli che sono entrati direttamente a contatto con la polvere. Non fasciamoci la testa prima di essercela rotta, amico mio”
“ Ti sei scopato Elisabeth Ryan, Samuel” – gli chiese Isaiah, guardandolo tranquillamente negli occhi. “ Che cazzo di domanda mi fai? Certo che me la sono scopata. Alla grande, ogni volta che potevo!” Fu la risposta perentoria del direttore dell’USRI, che subito dopo, resosi conto delle proprie parole, sbottò in un lamento : “Mio Dio, Isaiah! Oh mio Dio! ”
“Si, Samuel sei già contagiato. Stai calmo. Se mi dici quando è stata l’ultima volta che hai visto Elisabeth, possiamo provare ad ipotizzare il periodo di incubazione. Ci sarà molto utile per calcolare la velocità di propagazione. Ma prima di chiamare la Casa Bianca, ascoltami. Mi è venuta un’idea.”




Era passato una anno dalla visita di Bush jr all’USRI. Il contagio si era esteso in tutto il mondo. Restava forse qualche sacca intatta in Amazzonia, in Australia e in Alaska. L’economia e la politica planetaria si era profondamente trasformata. Le borse mondiali si erano svuotate per un 70%. Erano sopravvissute solo le imprese con i bilanci autentici. Migliaia di professionisti avevano dovuto cambiare mestiere. Commercialisti, auditors, avvocati si erano dovuti riciclare a insegnare a far di conto nei paesi emergenti. I pubblicitari e gli avvocati a fare le guide nei musei o gli animatori nei villaggi turistici. Le religioni erano state abbandonate dai fedeli e i vari sacerdoti. muftì, sciamani si nascondevano, in attesa di una tranquilla dipartita, per non rispondere ad altre imbarazzanti domande. Le televendite scomparse. Al loro posto un impetuoso sviluppo del commercio via internet su cataloghi assolutamente veritieri. Spariti i commercianti, in grande diminuzione i ladri. Resistevano i cleptomani grazie ai loro disturbi psichiatrici ma la loro incidenza era minima. Tra gli assassini, stazionari i serial killer, che uccidevano senza motivo. Scomparsi i politici di professione e il conflitto di interesse. I parlamenti erano affidati ai premi Nobel e si votava su opzioni riguardanti il miglioramento delle scuole, dell’attività artistica, dell’ambiente. Crescevano artisti, poeti e scienziati, diminuivano velocemente eserciti e armamenti. Anche i matrimoni stabili e le coppie di fatto si erano ridotti drasticamente e questo creava problemi per una eccessiva domanda di case. Fu perciò provvidenziale l’idea avuta da Isaiah Horowitz. Lui e Samuel Lewis, prima che tutta la polvere venisse dispersa ai quattro angoli del mondo, avevano messo a punto un antitodo specifico che permetteva solo di omettere gli innamoramenti improvvisi tra uomini e donne,tra donne e donne, tra uomini e uomini.
“ Resterà efficace – annunciò Isaiah, presentando il LAOP ( la Pillola Dell’Omissione Degli Affari Amorosi ) all’Assemblea delle Nazioni Unite – venti anni. Quanto ci occorre per portare a termine la colonizzazione di Marte. Poi sarà bene che l’umanità si innamori liberamente alla luce del sole, abolendo anche il concetto dei tradimenti d’amore”
Il venerdì successivo, al barbecue del ranch dei Lewis, Samuel dava un appuntamento alla sua rossa irlandese, mentre le offriva un Martini. A qualche decina di metri la moglie Sara, sotto il tavolo del patio, intrecciava la sua mano con quella di Isaia Horowitz.

Racconti - Polvere di stelle - Terza parte

Era un Samuel Lewis completamente affranto quello seduto nella accogliente poltrona di prima classe del volo Parigi-Pechino. Sfogliava i giornali lentamente e i commenti erano altrettanti colpi al suo sogno di gloria. I giornali del suo Paese erano unanimi nel considerare la parole di Chirac un atto politico gravissimo. Un’offesa violenta e gratuita che non poteva trovare nessuna giustificazione neanche nella fatidica conferenza stampa. Non aveva forse dato spiegazioni il Dipartimento di Stato? E perché scegliere l’occasione di una iniziativa congiunta nell’interesse della ricerca scientifica planetaria per un attacco così personale e volgare? Evidentemente i Presidente francese se l’era legata al dito e aveva deliberatamente scelto il momento giusto per la sua violenta ritorsione. Non mancavano, nella stampa americana, le dichiarazioni patriottiche e bellicose delle associazioni più conservatrici e nazionalistiche che contribuivano a ad alimentare zizzania non solo tra i capi ma anche tra i rispettivi popoli.. Il portavoce della All wars veterans association di Dallas nel Texas si scagliava contro “ il capo dei francesi, immemore della storia che dimostrava che la libertà del suo popolo di continuare a praticare le loro discutibili abitudini sessuali, era stata pagata con il sangue dei soldati americani, i quali, già allora, avrebbero dovuto capire per quali corrotti avevano combattuto, avendo riportato, dalla campagna di Francia, sifilide e altre sudicie malattie veneree”. I giornali europei, fatta eccezione di quelli francesi, stretti intorno al loro capo, erano preoccupati per quello che si presentava come un incidente diplomatico estremamente grave. Tuttavia erano molto prodighi nel ricordare le parole di Bush nella sua disgraziata conferenza stampa, assumendo, con questo, una posizione non proprio equidistante.


Nell’immenso salone della Città Proibita, il Premier comunista, Wen Jiabao, stava ringraziando con grande enfasi il Presidente americano per il gesto di condivisione, con gli scienziati cinesi, della grande opportunità di studiare per la prima volta un campione di cometa. Questo gesto si inscriveva in un saldo rapporto di cooperazione tra i due grandi paesi. Cooperazione in tanti settori dell’economia mondiale ma anche in campo politico, nella vigile convergenza contro il terrorismo internazionale, nonostante le diverse impostazioni politiche e ideologiche. Il Capo dei comunisti cinesi, nel concludere il suo intervento, non mancò poi di richiamare tutti, con chiaro riferimento alle polemiche durissime nate a Parigi, ad avere un maggior senso di responsabilità e a raffreddare rapidamente ogni polemica.
Quell’intervento rinfrancò enormemente lo spirito di Lewis riportandogli sul viso una serenità che sembrava, dopo Parigi, irrimediabilmente perduta. Non potè comunque non provare una certa inquietudine, memore delle esperienze appena trascorse, quando il corrispondente a Pechino del China Times di Taiwan chiese a Wen Jiabao se le sue parole, unitamente alla stima per Bush, potessero rassicurare i suoi connazionali sull’abbandono di ogni pretesa da parte dei comunisti verso la Cina nazionalista. La risposta del leader comunista fu secca e perentoria : “Né il popolo cinese, né il Partito comunista cinese, né io personalmente nutriamo alcuna stima per l’attuale capo dell’imperialismo americano. E’ a capo di una cricca affaristica che comprende i capi reazionari arabi e che controlla il commercio del petrolio. Il governo americano è in mano a questa banda di criminali reazionari. Il loro popolo è dominato da gangster che si arricchiscono con la droga, la prostituzione e il gioco d’azzardo. I nostri piani per riprenderci il territorio di Formosa, sottrattoci dalla criminale alleanza anglo americana, quando la Cina era sottoposta agli attacchi di differenti nemici, sono ormai conclusi. Non sarà la famiglia Bush assieme a quella di Cheney, a fermare i nostri diritti. Li liquideremo con un contratto di acquisto poliennale del loro petrolio. I cani reazionari, come si è visto a Parigi, si azzannano tra di loro e questo accelererà la loro definitiva rovina.” Samuel Lewis, a quelle parole, si sentì prigioniero di un incubo e poco mancò che non svenisse tra le braccia del suo stralunato ambasciatore. Nella grande sala, non ci fu il vociante scompiglio del Quay d’Orsay ma un silenzio assoluto, rivelatore dello shock provocato da quella inaspettata aggressione verbale.


Lewis non se l’era sentita di procedere verso Tokio. Non che si attendesse qualcosa di analogo a quello accaduto a Parigi e Pechino. Per fortuna il processo di americanizzazione del Sol Levante e di integrazione finanziaria era arrivato in profondità e i giapponesi erano il loro più fedele alleato. No, gli ultimi avvenimenti avevano creato un tale scompiglio internazionale, non solo tra gli addetti ai lavori, ma anche tra l’opinione pubblica mondiale, che sentiva il bisogno di tornarsene a casa a riflettere. Si procurò, cambiando i suoi programmi, un posto sul primo volo per Washington. Una volta salito sul boeing 747, si tolse le scarpe, mise la benda sugli occhi, prese due pasticche di melatonina e si allungò sulla poltrona con la assoluta intenzione di svegliarsi all’arrivo. Nonostante la melatonina e la stanchezza, la tensione non si placò e il suo cervello rimuginò per tutto il viaggio sulla improvvisa, cruda intemperanza verbale che si era impossessata di tre dei leader più importanti del mondo. Il che gli aveva mandato a puttane la tattica da lui suggerita allo staff della casa Bianca. Ma questo, in cuor suo ne conveniva, era poca cosa di fronte alla crisi politica internazionale che si andava delineando.

Niente più peli nella lingua. Sembrava che tutti avessero improvvisamente scelto lo stile del vituperato Presidente Venezuelano, Hugo Chavez. Era evidente che Bush e i suoi texani avevano dei pregiudizi un po’ rozzi sui gusti sessuali dei francesi. Gli americani non chiamavano forse “bacio alla francese” il bacio a bocca aperta e slinguamento? Che Chirac e buona parte del governo di Parigi - e non erano i soli in Europa - considerassero l’attuale presidente degli Stati Uniti “ un vaccaro e ubriacone” erano in molti a sospettarlo Le affermazioni del premier cinese, poi, con il riferimento agli affari della famiglia Bush, di Cheney e dei governanti arabi e l’annuncio degli imminenti piani di invasione di Formosa, facendo intendere che la Cina nazionalista era una questione risolta con i petrodollari, erano verità bisbigliate nei corridoi ma troppo dure da digerire. pubblicamente. Come era pensabile che, all’improvviso, alcuni tra i fondamentali reggitori dell’equilibrio dell’economia mondiale globalizzata, squarciassero il velo della dissimulazione politica e si rivolgessero alla pubblica opinione esprimendo le vere intenzioni di ciascuno e le personalissime idiosincrasie? Che ne sarebbe stata della ordinata adesione di miliardi di consumatori a un modello di democrazia fondata sul rispetto delle leadership? La funzione dei servizi segreti, delle diplomazie, le operazioni coperte, le trattative d’affari, la borsa, la stessa competizione elettorale, tutto sarebbe stato travolto, precipitando nell’anarchia.

La razionalità fredda e sperimentata dello scienziato cercava spiegazioni e risposte che non trovava. Dopo aver valutato e rivalutato una decina di scenari possibili arrivò, mentre l’aereo atterrava al Dulles International Airport, alla sconsolata conclusione che Bush, Chirac e Wen Jiabao s’erano bevuto il cervello! Con questa certezza, che rimetteva in qualche modo ordine alla sua visione del mondo, Samuel Lewis si diresse alla sala bagagli per ritirare la sua valigia. L’aveva appena intravista tra le strisce della tendina, quando, alzando gli occhi, la sua attenzione fu catturata dalle breaking news della CNN sul monitor che sovrastava il suo corner : “L’ Imperatore del Giappone, Akihito, rispondendo oggi ad una domanda di un giornalista coreano, durante la cerimonia pubblica di ringraziamento per il dono americano di campioni di polvere stellare prelevata dalla coda di una cometa, ha affermato che l’odio profondo contro il popolo americano, che tutte le generazioni di giapponesi provano, e che hanno imparato a dissimulare, si estinguerà solo quando la storia avrà fatto giustizia di un sistema criminale e disumano, l’unico al mondo ad aver sperimentato le bombe nucleari sulle popolazioni inermi.”

Seduto dietro la grande scrivania del suo ufficio, Samuel Lewis guardava affascinato i colori del parco.Da qualche giorno viveva come sospeso e attonito. Dopo Washington, Parigi, Pechino, Tokio,
ogni giorno, dichiarazioni di quasi tutti i leader dei principali paesi del pianeta, prive di ogni saggezza e prudenza, irose o fredde, ma sempre devastanti, a seconda della personalità del singolo leader, si rincorrevano da un network all’altro, occupavano le prime pagine dei giornali. Le tirature e l’audience avevano raggiunto picchi incredibili di saturazione, rallegrando gli azionisti ma scompaginando il quadro politico generale e i sistemi di alleanza.

Dopo Bush, Chirac, Wen Jiabao e l’Imperatore del Giappone, altri si erano distinti, per un outing feroce contro questo o quel leader. Tuttavia la Presidenza americana faceva la parte del leone nel ricevere giudizi smodatamente negativi. Putin, Angela Merkel, Tony Blair – G:W Bush? Un alcoolista idiota alla cui lealtà ho sacrificato la mia carriera politica – Sharon, Manhoman Singh,
Mandela, John Howard, la Regina d’Olanda, Berlusconi - …l’ho riempito di orologi costosissimi e mi ha dato del mafioso! Avrei dovuto dar retta ai miei vecchi amici italo americani di Miami che lo giudicavano inaffidabile. A pensare che a un coglione così ho regalato pure la maglia di Van Basten!-
La lista dei capi di stato che spiattellavano il loro pensiero, come se fossero a quattrocchi con le mogli, era lunghissima. Inoltre, c’erano state altre due occasioni in cui Gorge W. Bush aveva mandato fuori di testa il suo staff : una dichiarazione di correità nella vicenda Erron e un entusiastico quanto colorito giudizio sulla morbidezza della bocca di alcune stagiste della Casa Bianca. Ma questo accadeva anche nelle altre capitali. Ogni qualvolta uno dei leader era coinvolto in conversazioni private o in conferenze stampa, sembrava perdere ogni freno inibitorio. I media riportavano notizie di iniziative pressanti dei partiti politici e degli establishment, sostenitori degli improvvidi capi, per costringerli a dimissioni anticipate. In ogni paese - ad esclusione della Cina - l’opposizione pressava con la richiesta di impeachment del capo del governo.

Il telefono squillò e interruppe l’inquietante rassegna di Samuel Lewis. Era Elizabeth Ryan. Samuel non sentiva la sua ex amante da qualche settimana. Aveva evitato accuratamente di farsi vedere con lei e di cercarla, dopo la serata al suo ranch.
“ Dimmi Beth, che cosa hai?” Chiese non senza un certo imbarazzo. “Samuel, ho bisogno di vederti. Di parlarti. Al più presto…” Le parole della Ryan non lo rassicurarono affatto. Di tutto ho bisogno in questo momento - pensò - fuorché delle complicazioni psicologiche di una ex amante depressa. Si sforzò di usare un tono di voce rassicurante e pacato. “ Calmati Beth. Non puoi spiegarmi adesso? Lo sai quanto sono impegnato.” “Devo vederti Samuel. Devo parlarti di quello che mi sta accadendo. Non riesco più a governare la mia mente…” Le ultime parole furono rotte da un singhiozzo. Samuel Lewis si sentì afferrare da una agitazione crescente. Decise di tagliar corto. “OK Beth, ci vediamo stasera, dopo la chiusura dei laboratori al Cedar motel.” Chiuso il telefono, si sforzo di immaginare cosa stesse accadendo alla donna. Nessuna delle ipotesi che riusciva ad elaborare lo lasciava tranquillo. Decise di chiamare Isaiah Horowitz per cercare di sapere da lui qualcosa di più. Aveva accordato l’appuntamento a Elisabeth ma non voleva giungerci impreparato.

Racconti - Polvere di stelle - Seconda parte




Quando, il lunedì mattina, Samuel Lewis entrò nel suo ufficio, non era esattamente di buon umore e sicuramente non poteva affermare di aver passato un week-end tranquillo. A parte gli sguardi ironici di tutti i suoi amici, quando lo avevano salutato il sabato, lasciando il ranch : nessuno, soprattutto tra gli uomini, sembrava aver preso per buona la singolare precisazione di Elisabeth e questo lo faceva sentire, lui, il capo, come un bambino preso con le dita nella marmellata. Odiava che i suoi collaboratori avessero argomenti per spettegolare su di lui e incrinarne l’immagine pubblica. Tuttavia era l’atteggiamento di Sara che lo teneva sui carboni ardenti. Apparentemente sembrava aver accettata la spiegazione della Ryan, ma aveva percepito nell’aria come un sentimento di gelida sospensione. Poi, per la prima volta, in un fine settimana, aveva avuto una tale emicrania da rinunciare a fare sesso con il marito. Samuel, quella notte, rimase sveglio e avrebbe voluto rigirarsi mille volte nel letto. Scelse di controllarsi in ogni gesto. Non doveva tradire, agli occhi della moglie, che sentiva vigile e attenta, nessuno stato di nervosismo e agitazione. Doveva apparirle candido come un agnello e con il sonno tranquillo di un bambino. Rimuginando ogni attimo di quegli interminabili secondi, pensò che tutto quello che era accaduto era oggettivamente così irragionevole che una mente lucida e razionale come quella della moglie poteva anche accettarne la giustificazione più strampalata. Senza contare che Sara aveva piena fiducia di lui. Questo in qualche modo lo tranquillizzò ma al tempo stesso lo fece sentire, da quando frequentava la rossa assistente di Isaiah, come l’ultimo dei vermi.

La stupefacente dichiarazione della Ryan, al barbecue dei Lewis, tenne banco al Centro, nei pettegolezzi, fino al mercoledì successivo, quando la CNN interruppe le trasmissioni per dare conto di un singolare episodio che aveva coinvolto il Presidente degli USA durante la conferenza stampa settimanale, alla Casa Bianca. A una domanda sullo stato dei rapporti con l’Unione Europea il Presidente aveva risposto testualmente: “ Mi fido solo di Blair, perché è un brother mason e di Berlusconi che è un mafioso di parola. Tutti gli altri sono egemonizzati da finocchi liberal, a cominciare dai francesi, che con le loro pratiche sessuali sono i maggiori responsabili della diffusione dell’AIDS nel mondo.” Dalle immagini registrate della conferenza, che il network mise in onda, milioni di americani, ma anche di telespettatori di tutto il mondo, poterono rendersi conto del parapiglia che era scoppiato nella sala stampa della Casa Bianca., dopo quelle incredibili affermazioni. I giornalisti in piedi, vocianti, dopo un attimo di sconcertato silenzio; Condoleezza Rice che trascinava via dal microfono un inebetito George W.Bush; l’assistente del Presidente che prendeva il suo posto e dichiarava urlando che la conferenza stampa era conclusa per ragioni tecniche. A conclusione del breaking news la CNN dava conto di due comunicati ufficiali della Casa Bianca: uno, dei servizi di sicurezza, che imputava a non ancora identificati pirati informatici che si erano inseriti nei circuiti microfonici sostituendosi con una perfetta imitazione al Presidente; l’altro, del Vice Presidente Cheeney, che ribadiva la stima del governo degli USA verso i governanti europei e in particolare verso Blair, Chirac, e Berlusconi. Il fatto che la dichiarazione politica riparatrice fosse stata fatta dal Vice Presidente e non dallo stesso Bush, spinse molti commentatori a interrogarsi sul suo stato di salute mentale e a non dare molto credito alle dichiarazione dei servizi di sicurezza.
L’incidente, come era prevedibile, tenne occupate le prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Era la notizia di apertura di ogni network da occidente a oriente, da nord a sud e sottopose a un duro lavoro diplomatico le cancellerie della vecchia Europa.

Samuel Lewis fu in cuor suo molto grato a quello scoop che aveva distratto l’attenzione di tutti, nel suo Istituto, dalla vicenda della Ryan. Tuttavia anche notizie ben più importanti per il prestigio del suo istituto e del Paese, come la consegna dei campioni di polvere ai capi di stato europei, russi e asiatici, rischiavano di essere emarginate dalle famose dichiarazioni delle quali si rifiutava ufficialmente l’autenticità.
Chiamò al telefono il suo amico Leo Goldblum, consulente scientifico del Presidente e, senza troppi giri di parole, gli suggerì di mettere al lavoro l’ufficio stampa della Casa Bianca, per valorizzare, il significato politico della decisione di Bush di far partecipare gli scienziati di tutto il mondo alla loro ricerca sulla polvere della cometa, prelevata dalla sonda americana.
“ Non ti pare che proprio in questo momento, con il vespaio suscitato dall’incidente, sia opportuno enfatizzare il gesto di Bush?” Le parole di Samuel entrarono, come un coltello nel burro, nello staff presidenziale. Qualche giorno dopo, giornali e network ripresero le vecchie immagine della visita di Bush all’USRI per commentare la consegna ufficiale dei campioni di polvere stellare che i vari ambasciatori americani, in tutto il mondo, fecero ai capi di Stato. Nel giro di un paio di settimane, nessuno dei numero uno dei paesi destinatari del dono americano si tirò in dietro dall’ esaltarne, con pubbliche dichiarazioni, il significato politico e scientifico. Le immagini dei vari presidenti in visita ai centri di ricerca nazionali, che avevano avuto in consegna i campioni di polvere, rimbalzarono attraverso l’etere e i grandi organi di informazioni.
Come aveva intelligentemente previsto il direttore dell’USRI, l’attenzione dalla disgraziata conferenza stampa andò rapidamente scemando.


Atterrando all’aereoporto Charles De Gaulle, con il nuovo Concorde, Samuel Lewis non aveva assolutamente idea di dover vivere, dopo l’outing di Elisabeth Ryan al barbecue del suo ranch, una delle serate più imbarazzanti della sua vita. Il Dipartimento di Stato lo aveva pregato di presenziare
ad alcune delle più importanti manifestazioni organizzate, in Europa e in Asia da parte dei leader dei paesi che avevano ricevuti i campioni della polvere stellare, per ringraziare pubblicamente il Presidente degli Stati Uniti. Lo aspettavano, dopo Parigi, Pechino e Tokio, e, per via della ristrettezza dei tempi, sarebbe stata una corsa aerea infernale. Ma era soddisfatto. L’idea suggerita a Leo Goldblum aveva funzionato e l’Amministrazione aveva ora con lui un grande debito di riconoscenza. Un bel risultato per il suo prestigio personale e per i fondi del suo Istituto.

Quando Chirac, elegante e imponente nella la sua alta statura, si alzò per andare al microfono e iniziare il discorso di ringraziamento, lo stato d’animo di Samuel era dunque di raggiante soddisfazione, anche se il caldo del suggestivo Salone dell’Orologio del Quay d’Orsay e la stanchezza del viaggio gli intorpidivano leggermente i riflessi. Gli parve, a un certo punto, di aver persino sonnecchiato durante la fervente esposizione del Presidente francese e l’idea lo mise alquanto a disagio. Si spostò con il busto in avanti dal suo posto al tavolo della presidenza e fece mostra della sua più vivo interesse per le domande che i giornalisti accreditati stavano rivolgendo a Chirac. Quando l’inviato del Washington Post chiese al leader francese se i rapporti con Bush erano tornati cordiali dopo la famigerata conferenza stampa, Samuel Lewis sentì che quello era il momento nel, con le parole sicuramente elogiative di Chirac, avrebbe raccolto il primo trionfo.
“ Assolutamente no. George W. Bush è un vaccaro, ubriacone e rozzo che ha offeso la Francia e con la Francia l’intera storia dell’umanità. Se crede che la sua polvere stellare possa risarcirci dell’offesa conferma di essere il povero mentecatto che é. Per quanto mi riguarda può ficcarsela nel …” Prima che Chirac potesse finire la frase, che mostrava, pur nella inopinata caduta di stile, il suo genuino pensiero sul collega americano, i microfoni furono spenti e uno scompiglio generale si impossessò del sontuoso salone.

Racconti - Polvere di stelle - Prima parte

Quando Samuel Lewis imboccò il viale del suo ranch, erano le nove di sera. Il cancello, di assi di acero dipinte di bianco, spinto dal braccio meccanico, si chiuse alle spalle della sua Audi 8. La giornata era stata intensissima e non priva di soddisfazioni.
La visita del Presidente nella sede dello USRI, Utah Space Research Institute, si era conclusa con un elogio solenne ai ricercatori dell’Istituto da lui diretto, per il successo della missione Stardust. Tutte le reti tv nazionali avevano trasmesso la visita. Il Presidente aveva voluto entrare personalmente nel laboratorio blindato dove si conservava la polvere della cometa raccolta dalla sonda. Era eccitato come un fanciullo, quando con le sue dita un po’ tremanti, aveva sfiorato il sottile film di polvere stellare predisposto affinché il Numero Uno degli americani potesse materialmente toccare quelle particelle, vecchie milioni di anni.

Erano passate due settimane dal ritorno della sonda dallo spazio e le analisi di laboratorio avevano escluso, nei test con le cavie, che la polvere della cometa contenesse agenti patogeni per la vita animale. Per questo avevano aderito alla pressante, seppure un po’ infantile, richiesta del Presidente, “di toccare con le sue dita gli atomi e le molecole della cometa di Nazareth”. Probabilmente quella frase, di sicuro effetto giornalistico ma assolutamente insensata, gli era stata suggerita dal suo addetto stampa. Comunque l’entusiasmo del Capo avrebbe portato all’Istituto una buona stampa e soprattutto cospicui finanziamenti. “ E non sarai proprio tu, Samuel Lewis, a lagnarti dell’ignoranza del capo degli americani “ - aveva pensato mentre, sorridente accanto a lui, le telecamere riprendevano l’evento.
“Non terremo solo per noi questa polvere che racchiude la storia del cosmo” - aveva detto con orgoglio il Presidente - “ Invieremo un campione agli europei, ai russi, ai giapponesi ma anche ai cinesi e agli indiani. Vogliamo che gli uomini di scienza di ogni continente partecipino con noi allo studio e alla ricerca.

Samuel si infilò nel garage, uscì dalla macchina e si avviò fischiettando verso la scala interna che
conduceva al primo piano della casa. Ora che gli impegni per la visita del Numero Uno erano conclusi doveva farsi perdonare da Elizabeth. Erano ormai due settimane che non si recava da lei, nel suo appartamentino di Greenwood. Sentiva prepotente il bisogno di rilassarsi tra le sue braccia e godersi quel corpo incantevole. Trascorso quel week end avrebbe trovato il modo di starsene con lei più a lungo delle solite due ore. Raggiunse l’ampio salone e si avvicinò a Sara, sua moglie, e ai figli, Ariel e Rebecca seduti accanto al grande camino di pietra. Baciò tutti sulla fronte e si sedette accanto a loro, pronto a raccontare i particolari della visita presidenziale.

L’ufficio di Samuel all’USRI era spazioso e funzionale. Alle spalle della sua scrivania, una grande e luminosa vetrata si affacciava su un bosco di aceri e ontani splendente nella loro stupenda variazione cromatica dal giallo al marrone rugginoso. Samuel trascorse la mattinata a leggere i giornali che riportavano con grande enfasi la visita presidenziale. Prima della pausa del pranzo, chiamò Isaiah Horovitz, il direttore del laboratorio. Isaiah era un brllante chimico fisico dagli occhi azzurri eternamente sognanti. Gli confermò che i campioni di polvere da inviare ai centri di ricerca stranieri erano pronti per essere spedititi a Washington. Gli uomini della Segreteria di Stato avrebbero provveduto a inoltrarli per via diplomatica ai governi destinatari.
“ Aspettiamo solo il tuo ok, Samuel “ - disse Isaiah con un lampo ironico negli occhi - “e tra due, tre giorni, al massimo, qualche altro politico cercherà di incipriarsi il naso con la nostra polvere”.
“ Già, i governanti sono uguali in tutto il mondo. Ma questa pubblicità permetterà loro di trovare, nei bilanci nazionali, i fondi che ci servono. Questo è quello che ci interessa.” - Samuel concluse le sue parole stringendo amichevolmente con un braccio le spalle dello scienziato.
“ So cosa intendi, ma non mi va giù che questo texano, ubriacone, ignorante e repubblicano si tenga a galla con il nostro lavoro. Ma l’hai sentito ieri? La cometa di Nazareth! Qualche furbone del suo staff gli ha suggerito quella cazzata per scaldare il cuore ai suoi elettori fondamentalisti. E noi a sorridergli per fame di fondi.!”
“Isaiah, che dici? Parli come ai tempi dell’occupazione di Berkeley. Dobbiamo fare il nostro lavoro e farlo bene. Le tue considerazioni mi sembrano fuori posto”. Così dicendo Samuel Lewis
afferrò l’amico per un braccio e lo trascinò fuori dell’ufficio. “Vieni, ti accompagno fino al laboratorio”- Poi rivolgendosi verso Susan Tyler, la sua segretaria, le disse ad alta voce : “Susan vado a mangiare un boccone fuori dall’Istituto. Tornerò tra un paio d’ore”
Quando furono sulle scale che portavano al laboratorio, e dopo essersi guardato intorno, Lewis riprese a parlare.” Cazzo, Isaiah, dire quelle cose nel mio ufficio? Ma che ti ha preso? Devo insegnare proprio a te che ascoltano e controllano ogni nostra parola?” Horovitz sollevò i suoi limpidi occhi verso quelli dell’amico e dopo averlo fissato per qualche secondo gli sussurrò addolorato :“ Scusami Samuel. Ma quel uomo incarna tutto quello contro cui abbiamo sempre lottato. Stanno alimentando una caccia alle streghe contro ogni pensiero critico e liberale. L’espulsione delle teorie di Darwin dalle scuole, il divieto, qui, nei cinema dello Stato, della proiezione di Brokeback Mountains e ora, l’avrai letto, questa taglia nazista in California contro i docenti di sinistra!”. Lewis lo guardò quasi intenerito e concluse soridendo: “Ok e tu vuoi regalargli la tua testa e la mia per uno sfogo? Bisogna essere saggi e prudenti. Va, ora. Manda i campioni a Washington. Domani, se non avete impegni, tu, Ruth e i bambini potete venire a pranzo da noi, al ranch.”

Elisabeth Ryan era uno splendido esemplare di femmina americana. I suoi fiammeggianti capelli rossi erano il segno più evidente delle sue origini irlandesi. Un’ora di sesso con lei era come cavalcare una tavola di surf sulle onde di Stokton : Samuel non vi avrebbe rinunciato per nessuna cosa al mondo. Anche Elisabeth lavorava al Centro ed era una delle migliori assistenti di Isaiah. Era stato il suo amico a presentargliela, quattro mesi prima. Durante una delle riunioni periodiche che mensilmente convocava per verificare il lavoro di ogni dipartimento, Isaiah elogiò pubblicamente le capacità della ricercatrice. Elisabeth gli aveva stretto la mano trattenendogliela qualche istante più del dovuto e gli aveva piantato addosso lo sguardo ardente dei suoi occhi, verdi e brillanti come smeraldi. Dieci minuti più tardi aveva il suo curriculum tra le mani e il numero del suo cellulare. Quando le telefonò, andava ripetendosi la improbabile giustificazione che si era preparata per dissimulare l’uso poco corretto dei dati personali a cui lui, come direttore del centro, aveva accesso. La donna, appena cominciò a parlare, imbarazzato, lo interruppe con un tono deciso e ironico:
“ Ascolta Samuel, domani ho la serata completamente libera, ma non ho voglia di andarmene in giro. Vediamoci alle cinque del pomeriggio da me a Greenwood, ti farò bere il miglior te cinese dello Stato.” Non ci aveva pensato su neanche un secondo e le aveva risposto. “ Ok. Starò lì alle cinque”. Era cominciata così la relazione clandestina tra Elisabeth Ryan e Samuel Lewis.
Non c’era, in quella relazione, nessuna traccia di coinvolgimento sentimentale o di qualcosa che potesse definirsi romantico. Li spingeva, l’uno verso l’altra, un pura attrazione fisica, che esplodeva, periodicamente, in un paio d’ore di sesso sfrenato. Ma se Elisabeth, single e assolutamente restia a duraturi legami sentimentali, viveva spensieratamente il suo rapporto con Samuel, la stessa cosa non poteva dirsi di lui. Nonostante la sua convinzione, che con la giovane donna scambiasse solo pause sessuali, così definiva con se stesso quegli incontri intensi nell’appartamento di Greenwood, non poteva non provare, verso Sara e la sua famiglia, un ineludibile senso di colpa. Tuttavia il piacere che gli dava, liberatosi freneticamente degli abiti, impadronirsi del corpo ardente della sua amante, aveva avuto, fino a quel momento, ragione della sua accomodante coscienza e, quel che più contava, tutto sembrava filare nella più perfetta segretezza. Fino al barbecue di fine mese, quando il team di punta dei ricercatori dell’USRI e le loro famiglie, come d’abitudine, si riunirono nel ranch di Samuel.

La serata si stava concludendo, come al solito, intorno alla elegante piscina del ranch. Gli invitati, salvo i più giovani che continuavano a ballare dalla parte opposta, erano seduti in circolo e aspettavano di assaggiare il vino rosso italiano per il quale, la cantina di Samuel Lewis , era famosa.
Mentre il padrone di casa, assistito dalla moglie Sara , stava stappando le bottiglie, Aaron Douglas, uno dei capi dipartimento dell’Istituto, già al sesto Martini, si avvicinò barcollando ad Elisabeth Ryan e le chiese ad alta voce che fine avesse fatto il suo ultimo fidanzato.
“L’ho mollato, Aaron, adesso è Samuel il mio stallone” L’incredibile risposta della giovane donna ebbe l’effetto di un raggio paralizzante: per un attimo tutti i presenti si fermarono immobili con i volti stupefatti. Samuel Lewis, che stava cavando il tappo di una delle sue pregiate bottiglie, alzò il capo verso la sua amante con una espressione che a nessuno avrebbe potuto far venire in mente che quell’uomo possedeva uno dei più alti QI degli States. Le nocche tese e bianche per la tensione intorno alla coppa che attendeva il vino, furono l’unico segno che Sara Lewis era rimasta altrettanto fulminata. L’espressione più stupefatta fu però quella della Ryan. Appena ebbe finito di pronunciare quelle fatali parole, rimase un attimo come perplessa per poi portarsi le mani alla bocca, sgranare gli occhi in un sincero sbigottimento e infine cadere svenuta sul bordo della piscina.
Qualche attimo dopo la giovane ricercatrice riprese i sensi grazie alla sollecitudine di Isaiah Horowitz, l’unico che si era precipitato in suo soccorso. La donna si scusò dando la colpa del malore ai numerosi drink e rivolgendosi ai Lewis disse con la faccia più seria del mondo: “Naturalmente, prima mi riferivo a Samuel Goldsmith. Un lobbista di Washington che ho conosciuto durante la visita del Presidente.”

lunedì 30 giugno 2008

All'alba del terzo millennio




Fatti pioggia


Unica amante
ritrovata
attesa
accolta per sempre
bagnami.

Bagnami
e mentre ti sfioro
la bocca
e le pupille
il palato
e il collo
il petto
e il ventre
rinnova il tuo trionfo
sul mio corpo mortale
e lascia che i miei occhi
si accechino.

Tra la spalla e il collo
segnami.
Chiudi il cerchio dei tuoi denti
mentre ritorno
infisso alla matrice
a cercare la vita











Dopo di me


Rompono il flusso
delle domande inquiete
e dei giorni scontati
le teste chine dei figli
a decifrare i segni del loro sapere.
La monotonia delle ore
e il disincanto
s’infrangono al loro cospetto.

Accolgo
senza mai smemorarmi
il solo amore
che possiede il domani
e spio alacremente
ogni accadimento
alle sue frontiere.

Dinanzi ad attese
che non sono mie
e che hanno il mio sangue
per quanto desideri ritrarmi
s’abbatte in mille pezzi
la statua di bronzo
delle mie certezze.

Ora scruto l’orizzonte.
Ora m’ingegno
a imbrigliare il vento.
Ora sottraggo i semi
ai tordi infreddoliti
e copro il pane lievito.
Ora riparo il tetto.

E quando gli occhi
mossi dalla mia immaginata carezza
si levano a incrociare i miei
leggo i segni della semina.
Quel tenero
saldo sorriso
mi restituisce più forte
alla filosofia.











L'amore diverso


Occhi scuri che brillano.

Tra la bocca e il seno

si libera il tuo desiderio

nell’impavida gola.


Occhi scuri che celano.

Pensieri segreti

e palpiti audaci

e sogni di adolescente.


Aspettavi trepida e incerta

sospesa evanescenza

un altro destino d’amore

e le parole che non avevi

mai ascoltate.


Finalmente é giunto

e ti specchi.

Scopri

negli occhi dell' amante

la tua bellezza

libera e incantata

timida e diversa.











Corpora


Cadono a gocce i pensieri

su un letto caldo di noia

rimbalzando pigri

su profili già decifrati.

Non resta che attendere la notte.

Quando ogni cosa annerisce

e gli occhi cedono il passo

alla seduzione dei sogni.









A te


A te.

Amore sconosciuto

dalla postura quieta.

Amico del tempo lento.

Occhi che hanno attraversato

mille sentieri e vissuto mille vite.

Ami la musica a la carte

rhythm and blues

dei tuoi pensieri filigranati.

Conviene invocarti

solo se si hanno polsi d’acciaio

e cuore forte.

A te

gli auguri


per un altro giro sull’ellissi.










Corrispondenze biunivoche


Corrispondenze biunivoche
tra forma e sostanza
dissolvono in sequenza
gli affanni della mente.
Il silenzio è il verbo
di iridi confuse
oltre il tempo e il luogo.
Eppure
movimenti diacronici
di esperienze altre
frenano i gesti
nati da un identico respiro.
I tuoi simulacri banchettano
con ossa calcinate
da desideri annoiati.
Parodie senza palpiti
d’innocenza negata.
Non chiedo ragione alle stelle
di fuochi perenni
su traettorie immutabili.
E' alla tua luce
che chiedo coscienza.
Nascosta
dietro porte
di palissandro intarsiato
soffochi il grido
della tua carne placata
tra l’ignavia dei molti
inutili amanti.
Di tutte le stridule paure
guardiane infaticabili e invidiose
la più grande é quella
di occhi finalmente testimoni
della tua verità.
E questo temi.











Unica


Non ti ho incontrata
pellegrino
calpestando
le mille vie della rosa dei venti.
Né immaginata
tra gli infiniti giochi della mente.
Niente di simile a te
prima.
Niente dopo la tua epifania.
Questo ti rende unica
ai miei occhi
come solo a chi legge
appare la poesia.
Il tuo enigma risolto
mi appartiene.
I tuoi pianeti mi appartengono.
Solo ti è concesso

il libero uso delle superfici.









La libreria


Risuona la mia mansarda
del fragore delle armi di Omero.
La voce profonda del Bardo di Avon
racconta profetica
le passioni dei potenti
gli amori delle regine
i giochi degli elfi.

Scende dagli scaffali disordinati
il bisbiglio dei contemporanei.
Si accapigliano
Clio e Urania
e sovrasta
il consesso di uomini virtuosi
l’eco risorgente
della domanda che precede l’azione
scagliata dall’uomo di Lena.

Al tramonto
la luce intenerisce i colori
e mi siedo
ad ascoltare in silenzio
la voce dei poeti
che zittisce tutti.










Pensieri all'alba


Petali aperti
vermigli al desiderio
velati di rugiada
secreta
al grido della tua gola morbida
mai arresa alla tirannia del Tempo.

Si chiude l’anello
delle dita bianche e affusolate
lacerando il velo

di desideri antichi
inascoltati.






Delfi

Apparve improvviso
tra due colonne corinzie
velate di filigrana
il mistero di un sentiero
promesso e celato.

La mano della vestale
indicava la via
e i passi del credente
si persero

nella profondità dell’abisso.






Penelope


Pensi che ad attirarmi
siano le eleganti nere colonne del tuo Tempio?
O i marmi d’alabastro
e le purissime foglie d’acanto?
Che sia l’oro filigranato dei fregi
a spingermi a bussare?
Fino consumare le mie mani sulle tue porte?


Vedi nelle mie sembianze
l’impazienza insulsa del giovinetto?
o qualcosa del mio alfabeto
mi ha assomigliato
all’artista impotente che ti soggiace
privato del suo destino
ubriaco di note ed accordi?


Ho frantumato
calcinato
e poi rifuso ogni parola
per donartela nuova.
Non volevo ti giungessero echi
e suoni consumati dall’abitudine.
Belati di Proci pretendenti
ai piedi del tuo letto.


Là dove tessi la tela
voglio entrare.
Seduto accanto
a consegnarti la lana
e i fili dei tuoi tessuti.
Léggere le trame
dei tuoi volubili disegni
angeli annunciatori
di una verità che si concede

all’esule ritrovato.







Interazioni


Pianeti identici
di differenti ellissi
tracciate su piani paralleli.
Destinati a incontrarsi
al girare del secondo fuoco
l’uno sull’altro.

La collisione impossibile
non riguardò le maree.
Si mossero
oceani di immota energia
curvando superfici
ad altezze
di aria rarefatta
e cristalli di ghiaccio.

Sui fondali
scoperchiati
ignoti alle bussole
e a carte stellari
s’accesero tutti i colori.
Dal rosso al violetto
divamparono i fuochi.
Sogni imprigionati

all’alba delle galassie.






Ordalia

Scorrono i giorni
divorando
tenere carezze
intrepide.

I pensieri nuovi
attraversano
paesaggi senza mistero
profumati di mirto.
La gola risuona

rinnovando i sogni
e i trionfi

Al calar della notte
gli occhi riarsi
scrutano i confini
e i fuochi messaggeri
delle nuove ordalie.







Ellade

Erano senza colore
gli occhi dei suoi amanti
e quando implacabile
si volgeva all’Amore
non recava tracce
né ricordi.

Invocava il dio
testimone
delle sue vittorie
sul Tempo
e nei suo volto
rinnovava la linfa.


Intorno a lei gli altari
ancora caldi
mostravano i sacrifici
inconsapevoli
della sua purificazione.







L’ora di mezzo



Quando

le ore passate dall’alba

hanno già consumato

la speranza

e quelle della notte

giungono

recandoti un oblio

ogni volta più corto.

Quella

è l’ora di mezzo.

Il limbo inquieto

dove ti aggiri

immemore di banchetti profani

e solo la tua musica ti detta i passi.

Potrei allora apparirti

in quel tempio


che mai fu aperto ai barbari?

Chiudere il cerchio

con le mie mani?

Alfa e omega della tua vita?

Si. Potrei.

Percuotono i miei palmi

la grande porta invalicata

per giungerti di fronte.

Mille corpi abitano il mio

e solo uno é il volto.

Il tuo.









Ad portas


Chi è il Barbaro che si è avvicinato al mio Tempio?

Ha bussato con palmi aperti

privo di armi.

Dove attinge tanta sicurezza?

Non ha letto gli stendardi sul sentiero?

Forse è cieco.

Forse non sa decifrare le mie scritture.

Non sa del mio scudo e dei miei artigli.


Ha osato il Barbaro

sfidare il morso dei miei denti.

Insensato!

Allora perché vacillo?

Perché appoggio l’orecchio sul bronzo levigato della porta

e ascolto le parole di miele?

Cos’è questo presagio inaspettato

che mi avvolge e mi tenta ?

Il Barbaro vuole entrare nel Tempio.


Non ha visto

avvicinandosi

le ossa biancheggiare alla luna

tra gli anfratti del Monte?

Non ha compreso

che la mia maschera

che seduce e stermina

è visibile solo fuori le Mura?

Il Barbaro ha letto le mie cifre

e i numeri della mia nascita.


Per questo nulla lo ha fermato.

E ora chiede senza tregua

la Verità.









Amor pagano



Scorrono lente le ore

quando teneri e trepidanti

salgono i pensieri di nuovi amori.

Scrutano inquieti

gli occhi ambrati

i gesti dell’altro

smemorandosi

dei giorni dell’affanno.


Si accende

l’inutile gelosia.

di chi conta nell’ombra

le ore che mancano alla notte

e ai movimenti volubili del tuo desiderio.


Memore della dolcezza

che ha illuminato il giorno.


Non trema

né teme confronto

il Barbaro.

Ha guardato i mutevoli confini

dei tuoi sogni segreti

e ascoltato l’assordante silenzio

delle tue tregue.

Ti attende tranquillo

nelle ore che sono solo tue.







I giorni che conto


Ci sono i giorni dell’Esilio.
Insensati
che non ci appartengono.
Scansioni ritmate
pendoli di quarzo.
Giorni che ci vivono
accanto
perduti dalla nostra distrazione.
Non hanno sapore.
Se l’avessero sarebbero nostri.

Ci sono i giorni dell’Assenza.
Senza i tuoi occhi.
Non hanno forma
né suoni
né incanto.
Sono i giorni che conto.
A partire da…
Nulla prima di quel giorno
della tua Epifania.
Ci sono i giorni della Resa.
Mia e tua
senza condizioni.
Anime finalmente confuse
a danzare duende.
Percussioni cadenzate
oscillazioni implacabili
accendono l’oro dei tuoi occhi
Sono i giorni della luce curva
che cancella la tirannia del Tempo
mentre soffochi l’urlo
nel tuo morso d’alabastro.







Morrigan


Fece due passi avanti
Morrigan
a coprire il suo Re
Sola e severa
tra fanti e alfieri
e cavalli insanguinati.

Alle sue spalle
gli altari abbandonati.
Oltre le porte
disserrate del Tempio
gli spenti bracieri
e i pennoni di Macha.

Dritta e nera colonna
ardeva.
Vergine palpitante di desiderio
vegliava la lancia arrossata
del figlio di Lugh
prediletto tra i guerrieri.

Poi il suo mantello
si fece piuma di ali
e volò sulla spalla
dell’amore caduto.









Il sacrificio


Labirinti di parole
secrete dalla mente.
Filamenti d’argento
tessuti
in cristalli gelati
da labbra socchiuse
a nascondere
invano
denti di lupo.

Guerrieri disarmati
contro la paura
che nasce
dove non ci siamo misurati.
Si nutre
del non sapersi estenuati.
Non sopportano
le basiliche di Pan
l’incenso e la mirra
ma altari rossi di vino
e percussioni di tamburi.

Tu
precipitato lucifero
ti porti dentro
il ricordo mai estinto
dell’antica innocenza.
Attimi di smarrimento
fermano i tuoi artigli
a un passo dal cuore
e sempre ti soccorre
la mano complice
del nuovo amante.

Tregua senza sollievo
che dura
il tempo del cristallo di neve.
Goccia evaporata
sulla pelle inarcata.
Non condividono
i servi
il potere della Regina
né i delitti.
Non chiede il lupo
ragione della sua fame
o permessi
al profumo dell’estro
né la luna
disegna i suoi cicli
conservando memoria
degli ululati.

Vibra i tuoi colpi
e guardami.
Solleva il seno
alla mia lama
senza paura.
Vedrai finalmente
il colore del sangue
che nessuno ha mai sparso.
E tornerai alla nascita.









Appena sotto



Appena sotto

la splendida pelle

inerme alle carezze

c’era la lupa.

Gli occhi grigi

della madre selvaggia

e gli impietosi denti affilati.

Quando la baciò

bevve da tutte le gole

che aveva lacerato.

Quando la prese

sentì il calore

dei mille accoppiamenti

consumati ai pleniluni.

Scoprì

senza rimedio

il potere della vita

e la sapienza

che custodiva il seme.







Ora


Ora.
Né prima né dopo.
Mai uguale a nessun’altra
delle mille te
svanite all’alba
dopo furori che ti lasciano intatta
e implacata.

Ora.
Troppo lontana
per sacrificarmi
troppo vicina
per ingannare
gli occhi che si posano
sulla tua solitudine.

Ora.
Mi chiudo
tra i tuoi labirinti
senza chiederti il filo
e vivo
invincibile
i tuoi attimi
senza di me.

Ora.
Ogni verso ti contiene
sedotto dai gesti
che rimarranno ignoti
sepolti
dal rosario di passioni
cadenzate ed esangui

che ti hanno lasciata invisibile.







Omero



Era cieco il primo poeta.
Vedeva con il cuore
amori di uomini
e battaglie di eroi
invidiati dagli dei.

Io vedo e non sono poeta.
Osservo la realtà.
E quand’anche non mi rivolga
alle stelle
mi catturano
mondi infiniti
oltre ogni immaginazione.
Ai sensi
non resta che scegliere.
E rimpiangere.

L’oro dell’ultimo sguardo
possiede
la magia rubata agli altri
Lo spegnerà
il prossimo
con un lampo d’acciaio fuso
lasciandomi implacato
a interrogarmi.

Se non poeta come il primo
come lui
vorrei essere cieco.
Il cuore allora
mi condurrebbe sicuro

fino agli occhi che mi attendono.

Notte di plenilunio


Era una notte di plenilunio
quando accadde di smarrirmi
tra ulivi argentati e richiami di civette.
Mi svegliarono
gli echi misteriosi di una Sibilla fenicia.

Quei suoni
mi colpirono i sensi
e la ragione non si curò
degli oscuri vaticinî.
Né mi fermarono
severi divieti
e sperimentati anatemi.

La musica dei tuoi pensieri d’amore
dileguò la paura.
Guidò i miei passi
ad attendere il sorgere
della nuova Luna
per sigillare
sepolcri profanati.

Da quella notte
ogni notte
accendo roghi allineati
rischiarando ombre
e segni
sfuggiti al Tempo.
Da quella notte
ogni notte
mi dissolvo
in turbini di scintille
che il tuo amore divino
trasmuta in lucciole.

Tremori

Ora
che in un solo sguardo
racchiudo
l’ansia del tuo corpo
e le volute dei tuoi trasalimenti
i miei giorni sono luce diffratta
e le notti accese spirali.
Lungo i tuoi recinti
conficcati sui frassini
biancheggiano
i miseri resti di idioti enigmisti
ignari di alfabeti alieni.
S’appressano umanoidi
psico apatici irretiti
che la tua annoiata vanità
cattura
sadicamente impietosa.
Fino a quando fingerai
di non scorgere
i martiri occhi
che conoscono
i tuoi gesti a venire?
Fino a quando la tua mente sceglierà
l’encomio eccitato e il pianto imbelle
per non leggere
le ragioni della tua essenza?

Sto nei pressi

Sto nei pressi
ad aspirare il tuo profumo
ad ammirare le tue pieghe
i tuoi movimenti,
le tue concessioni.
Stanotte, come ogni notte.
Accontentandomi
del carminio delle tue labbra
piegate nel sorriso.
Quel sorriso malizioso
e pure timido
intento a provocarmi
quando accendi la tua luce.

Sto nei pressi
chiedendomi
cosa ti suggerirebbe la fantasia
quali sublimi e dolorose provocazioni
se tu fossi per un attimo
solo per un attimo
consapevole della mia presenza
accanto a te.
Le tue belle natiche riacee
accostate a proteggere
l’anello e il velo
le cosce morbide di seta
che non trattengono
l’umore secreto dai tuoi sogni
in stille profumate.
Ma non dormi?
Ti giri verso di me
e le tue dita
morbide e sapienti
di fantasie distillate e segrete
danzano
sfiorandomi
forse sognando la mia presenza
Tendono la seta
i tuoi seni
alla carezza dei miei sguardi
e al rinfrescare della notte.
Promettono
ma io sono pura energia
recatasi presso di te.
Non mi è concesso confondermi.

Sto nei pressi
e i tuoi polsi si incrociano
sopra la tua testa
ricordandomi
il giorno del tuo avvento
felice già della tua esistenza.
Si piega all’improvviso
una gamba divaricandosi
per mostrare la gloria
di una perla rossa che emerge dall’apice.

Sto nei pressi
fino all’alba.
Per respirare i tuoi percorsi
attraverso la scia profumata
che lascia il tuo corpo
mentre riacquista coscienza
lentamente alla luce del giorno.

Il segno

Il segno
mi giunse puro e diretto
e annichilì di luce ogni variante.
Sedotto dall’assoluto inaspettato
ho imparato a leggere
la grammatica nuova
e il disegno delle mappe segrete
riconoscendole mie.

Si dissolvono le architetture
dentro spirali incandescenti
dove la carne bracca lo spirito
a sua volta inseguitore.
Infaticabile e stralunato
mi sottometto
a un desiderio implacato e mutevole
che chiama all’agape
commensali senza perizia
e ignari.

Riflessi l’uno nell’altra
prepariamo le quinte
e dipingiamo le scene
delle danze eseguite nei sogni
identici
che abitavamo senza conoscerci.
Suoni modulati e percussioni improvvise
catturano polsi e caviglie in attesa.

Le astratte geometrie dello spazio
e la ragione vigile e insonne
mutano al calar della notte.
Si aprono i recinti
severamente custoditi
e la terra e il cielo risuonano
di colpi cadenzati
in corpi confusi da musiche dervisce.
I movimenti pigri e gli sguardi indolenti
celati dalle maschere
cedono il passo
alle policrome follie incatenate dal giorno.
Finalmente libere.

Io mi innamoro

Io mi innamoro
Se la strada è affollata
l’aria trasparente
e spira una brezza di terra
m’innamoro
Cento volte

La luna velata di vapori rossi
aggiunge passione
ai profumi
che mi muovono il sangue.
quando gli occhi hanno compiuto
la congiunzione

Io mi innamoro
del trionfo di piaceri
che hanno il coraggio di manifestarsi
senza vestirsi dei merletti ingialliti
nei cassettoni
di polverose soffitte
con vista sul mare

Io m’innamoro
E parlo in versi
che si posano
come carezze
sulle dune e gli anfratti
di bruciati
incalpestati deserti

Io m’innamoro
Gabbiano con le ali gonfie
degli oceani che ho attraversato
so distinguere il grido
di chi apparecchia il nido
sullo scoglio più alto
per custodirvi la vita

Non mi trattiene allora
il maestrale violento
che travolge le vele
né l’abbraccio mortale degli elementi
dissolutore di orizzonti
Mi faccio acqua e mi faccio vento

per incontrare l’unico destino