Il test elettorale che ha
riguardato sette milioni di italiani, tra i quali un aggregato molto specifico
come i cittadini romani, governati dal centro destra, conferma ciò che nell’analisi
è sempre più chiaro da un quadriennio: la rottura del patto sociale, la crisi
delle nomenclature che hanno governato venti anni della cosiddetta seconda
repubblica, il vento populista che gonfia e affloscia le vele di personaggi mediatici
che non riescono ad andare oltre la denuncia: si chiamino Orlando, Silvio Berlusconi, Di Pietro, De Magistris,
Beppe Grillo.
L’astensionismo cresce a
dismisura. Negli ultimi tre mesi a quello provocato dal disgusto per le pratiche sorde e
opache dei partiti si è aggiunto lo sconcerto di 55 giorni di confusione
quirinalizia originata da una direzione del PD tanto incapace quanto tetragona
a tutti i ragionevoli e chiari segnali inviati dall’elettorato. La sfiducia
nell’attuale sistema della rappresentanza coinvolge la maggioranza dei
cittadini. Che il fenomeno preluda a un conflitto sociale che scelga strade di
rottura e violente dipenderà molto dal persistere della crisi con
l’impraticabilità delle tradizionali politiche espansive della spesa pubblica.
Se l’Europa del Nord acconsentirà all’allentamento del rigore è possibile che le politiche di spesa permettano il
riassorbimento delle tensioni più acute? E, in questo caso, il nuovo
astensionismo si aggiungerà a quello tradizionale postbellico e accadrà da noi
quello che già avviene negli USA dove la espressione attiva del voto è
costantemente bassa? Ho seri dubbi. I due sistemi politico sociali non sono
meccanicamente comparabili. Ciò che
negli USA è fisiologico da noi è invece il portato di una protesta contro un feudalesimo politico e finanziario che alimenta rendite di posizione
ormai insopportabili e non riassorbibili nel ciclo perdurante di una crisi
continentale di lunga durata. Paghiamo quindi i ritardi di una mancato
investimento nell’innovazione, nella formazione, nella specificità
manifatturiera. Non ci mancano i fondamentali per uscirne fuori, ma ci occorrerebbero
dieci anni di un monocolore ampiamente maggioritario sostenuto da una visione
condivisa.
Grillo e Casaleggio puntano alla
fine dei partiti negando ogni politica delle alleanze. L’idiosincrasia della
mediazione è figlia della convinzione che gli interessi della cittadinanza non
siano mediabili con quelli che detengono il potere politico oggi. Lo sfascio,
l’inettitudine, la povertà del personale politico imperante è tale che non è
facile smontare la convinzione del gruppo dirigente pentastellato: hanno fatto
un pieno così tumultuoso e mai registratosi prima di voti che la controprova
del recupero è evidentemente onere di altri. E in ogni caso in quel movimento
si agitano, accanto a posizioni risibili, indubitabilmente spinte verso una
rappresentanza della decisione e della partecipazione che vanno fuori dai
confini nazionali e hanno forti analogie al nord , al sud, ad ovest e ad est
del mediterraneo. In Germania sta nascendo il Bewegung 5 Sterne. C’è quindi un
disagio di fondo nei popoli europei che è analogo sia nei paesi poco virtuosi dell’Europa del sud che in quelli più
previdenti e rigorosi del Nord.
Tuttavia, in Italia, il
dimezzamento del M5S, nel breve arco che va dalle politiche alle amministrative
del 26-27 maggio, è troppo rapido per non contenere tra le sue cause, oltre
alla tipica volubilità dei comportamenti dentro l’aggravarsi di una crisi
sistemica, la critica ad una povertà del personale politico e all’inconcludenza
nel governare che questo nascente movimento ha dimostrato in uno degli
appuntamenti istituzionali più alti italiani: la Presidenza del Consiglio e la
Presidenza della repubblica.
Silvio Berlusconi, con una
campagna elettorale politica di eccezionale sforzo mediatico e finanziario - concentrata
populisticamente sui punti sensibili immediatamente proprietari e fiscali - ha impedito che il tracollo elettorale del
centro destra fosse totale, pur perdendo oltre il 16% dei voti. Un capolavoro
tattico, accresciuto dallo stallo tripolare consegnatoci dal porcellum e dall’impetuoso
avanzare del M5S, ma al tempo stesso un non senso strategico, di fronte a una
crisi che non ammette altre soluzioni se non di affiancare alla radicale riduzione dei costi
della politica e della burocrazia statale e locale una redistribuzione della ricchezza
parassitaria accumulatasi in oltre un ventennio e una permanente lotta all’evasione.
Il blocco sociale e politico che sostiene le ultime barricate del Cavaliere,
questo lo sa perfettamente: cerca di rinviare il dimagrimento obbligatorio
sostenendo un signore che non ha visione strategica ma solo ossessioni personali
giudiziarie e, anagraficamente, poco tempo a disposizione. Questo centrodestra
è ingessato dall’origine monocratica e personalistica del suo apparato
politico: trova dunque grandi motivazioni nel primum vivere ma una incredibile
incorenza pratica nell’azione riformatrice liberale che ha promesso e di cui il
paese aveva ed ha un urgente bisogno. L’occasione che l’inettitudine e la
sordità del gruppo dirigente del PD gli ha consegnato è servita a Silvio Berlusconi per una boccata
di ossigeno. sicchè l’obbligato governo delle larghe intese non sembra
destinato a darci rapidamente quello che serve per un “bipolarismo gentile”
dell’alternanza e con una legge elettorale semplice e chiara come quella che ha
appena governato la recente tornata amministrativa. Il “problema Berlusconi”
con le sue esigenze giudiziarie resta intatto. L’innovazione e la governabilità
del paese non possono aspettarsi da quel lato nessuna disposizione benevola
alla sintesi. Il voto amministrativo,
con la dimostrazione dell’inservibilità dei sondaggi nel perdurare di una astensione
e una aleatorietà molto alta nei
comportamenti, ha incrinato i cori ottimistici sulla ripresa del centrodestra,
concedendo al governo Letta un clima politico più sereno e meno nevrotico.
E vengo al PD. Paradossalmente le
carte migliori, per un’altra Italia, finalmente sburocratizzata, ammodernata,
innovata nella Costituzione e nella forma della governance, ce le ha il PD.
Proprio quel partito depresso, che ha consumato l’autodafè di un gruppo
dirigente che dalla sua tradizione, non avendo più visione, ha ereditato solo
le parte oscura della conservazione di
se stesso. La forza del nuovo PD è la presenza in campo, contemporaneamente al
persistere degli zombie, di una
leadership reale, dinamica, appassionante, che aggrega, ed è potenzialmente
maggioritaria. L’ultimo voto sta a dimostrarlo con una costanza, dal 2011, che
solo la protervia di politici incapaci o resi ciechi da ideologie obsolete, riesce
a non vedere.
Debora Serracchiani ha
ironicamente chiosato il risultato sostenendo che si vince nonostante i
problemi del PD. Molto di vero c’è in questo paradosso e bisogna farci i conti
al congresso: il PD è dentro il popolo italiano. Plurale, radicato, meticcio, costituzionale,
solidaristico, pragmaticamente laico e legalitario; amministra da sempre
migliaia di comuni grandi e piccoli: non ha nei suoi elettori, come aveva
intuito il Lingotto, la rigidità e i difetti delle nomenclature originarie. La
stragrande maggioranza di questo elettorato, pur segnato pesantemente dall’insulto
di una nomenclatura incapace - che ha prodotto, è bene non dimenticarlo, un’ulteriore fuga verso l’astensione di
quattro/cinquecentomila elettori delle politiche - ha creduto al governo del
proprio territorio, ha votato i suoi rappresentanti.
Quale PD deve sopravvivere o
rivivere?
- Un PD senza soldi pubblici
intanto. E, badate bene, è veramente una rivoluzione che cambia completamente
il rapporto tra i cittadini che decidono di aderirvi sulla base di una scelta
del campo di valori laici, costituzionali, di libertà e solidarietà e di selezione
meritocratica della rappresentanza. La
fine dei tesorieri centrali e correntizi e l’avvento della trasparenza totale
delle contribuzioni militanti e private cambiano radicalmente la natura di un partito. Il
denaro rende disuguali le persone e i progetti. Non la meno troppo lunga su
questo aspetto: la cronaca degli ultimi venti anni è ricca di esempi di
disinvolto e illegale uso del denaro pubblico per alimentare le proprie
personali prospettive di carriera politica. Dopo Greganti e Citaristi è
finita la stagione dei fundraiser di
partito ed è dilagata quella dei conti
personali.
- Un PD centro studi che
selezioni i progetti, le donne e gli
uomini migliori e competenti, per
l’amministrazione della cosa pubblica
sottoponendoli costantemente al vaglio dei suoi riferimenti sociali.
.- Un PD che promuova la selezione di una classe dirigente nel
tempo misurabile per dare prova di sé nell’azione di governo locale e nazionale,
con un limite rigoroso dei mandati.
- Un PD che separi nettamente le responsabilità di partito
da quelle istituzionali scegliendo con primarie aperte a tutti i cittadini la
premiership.
- Un PD organizzato in tutte le forme varie e possibili che
una comunità del XXI secolo riesce a
pensare
- Un PD che, nell’immediato, si faccia dunque vigoroso
portatore del rinnovamento della Costituzione per un presidenzialismo alla
francese che assicuri la governabilità essenziale
per le sfide continentali.
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