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giovedì 4 luglio 2013

Giaccherigno

Siamo degli insopportabili provinciali. Incapaci di guardare al fondo di noi stessi come popolo. Pronti ad esaltare sempre gli altri, Arriviamo persino ad essere razzisti verso noi stessi. Forse perché siamo i più vecchi e imbastardi del mediterraneo e dunque della storia della civiltà. Bruciati dai Vandali, impalati dai Saraceni, impestati dai Lanzichenecchi, ci siamo fatti furbi e cinici per sopravvivere. Caritatevoli per battesimo continuiamo a schiamazzare e a vociare su un bagnasciuga incuranti di un povero morto. Abbiamo costruito i comuni e le città più belle grazie al sudore e alla maestria geniale degli artigiani e corriamo compulsivi appresso ad ogni moda effimera. Nel gioco del calcio diamo il meglio e il peggio di noi stessi. Sia nel parlarne che nel praticarlo. E pure rappresentiamo, in questo che è il gioco più amato del mondo, una scuola tra le più vincenti. E, bisogna dirlo, il calcio, oltre ad essere un grande produttore di fatturato è anche un potentissimo veicolo comunicativo. Ma nel nostro calcio - come d’altronde nella nostra poltica - soffriamo di strabismo e di superficialità.

Mercoledì scorso si sono giocate in Brasile due partite decisive della Coppa delle federazioni. Brasile vs Messico e Giappone vs Italia. Cena leggera, sigarette e acqua minerale ghiacciata. In calzoncini e maglietta mi sono seduto nella mia nuova poltrona e non ne ho perso un minuto, commenti compresi. I Carioca hanno battuto i messicani due a zero, gli Azzurri hanno sconfitto i Bianchi del sol levante quattro a tre. Il primo incontro è stato di una noia mortale. Messicani gran palleggiatori fino ai venticinque metri ma dimentichi che il pallone va alla fine indirizzato verso la porta. Brasiliani che affidavano con lanci lunghi le loro sorti al nuovo re del mercato mondiale, il ventunenne Neymar. Suo il primo gol e suo il merito del secondo. Un tiro al volo da dentro l’area e un assist dopo un tunnel e una serpentina tra due difensori immobili. Durante la partita ho osservato questo nuovo eroe brasiliano lasciarsi cadere più volte al minimo contatto con una capacità recitativa del dolore pari alle sue indubbie doti tecniche. I commenti dei vari esperti assemblati nei vari network hanno raggiunto il diapason della glorificazione. Al punto che mi sono chiesto se avessi assistito ad un’altra partita. La mia indignazione si è interrotta con gli inni nazionali dell’incontro più atteso.

Due panchine dirette da due allenatori entrambi italiani. Allenatori coscienziosi, seri, di scuola italica appunto. Si è visto subito che la nostra compassata portaerei non ce la faceva a reggere l’assalto martellante e indemoniato di una squadriglia di kamikaze. Nei venticinque minuti iniziali differenza di corsa e aggressività ma anche errori tattici. Ai secondi il nostro Prandelli ha rimediato con un cambio immediato, ai primi, viste le scorie accumulatesi nelle gambe dei nostri reduci dal campionato e dalle coppe, non c’era modo di rimediare se non con lo stringere i denti e sputare i polmoni. Due a zero a favore dei nipponici in poco più di trenta minuti. Roba da schiantarsi. Ma la reazione c’è stata . A guidarla non è stato un dominatore dei mercati, né un re del gossip pallonaro, ma un giovanotto piuttosto da libro Cuore, pedatore di lunga gavetta, maestro del dà e vai, corridore che quando entra in area, dopo una corsa sfianca polmoni, insacca la testa tra le spalle come una testuggine per succhiare l’ultimo ossigeno e concentrarlo nel tiro. Giaccherigno, come lo ha orgogliosamente ( e polemicamente) ribattezzato Antonio Conte, l’allenatore vincente che lo ha preso dal Cesena. Già, Giaccherini brasiliano, che salta l’uomo pestando la linea di fondo, che fa l’assist e si inserisce e tira. Che ha mai fatto Neymar più del toscano ieri sera.? Quel dribbling bruciante in area e il tiro secco che s’è stampato sul palo? E la magia della palla ripresa sgusciando dietro la schiena dell’incredulo difensore giapponese e il traversone teso e violento che obbliga all’autorete? In una partita guerreggiata all’ultimo sorso di energia nell’apnea del Pernambuco, Giaccherini è stato il vero eroe dello storico, tanto insperato quanto cabalistico quattro a tre. Eppure i facitori dell’opinione sportiva, ormai competenti di calcio meno dei frequentatori di un bar del lunedì, hanno decretato che il sondaggio dei migliori riguardasse i due narcisi destinati già nei commenti precoppa a segnare il torneo. Lo strapagato e volubile numero 10 carioca e il nostro muscoloso e irritabile 9. Ma noi che viviamo l’Italia con occhi più compassionevoli, abbiamo sofferto e partecipato per un’altra partita. E ce la teniamo stretta assieme alle immagini del nostro umanamente immenso numero 22

Top player? No, The Artist

I piedi di Paul Pogba, non affondano nell’erba del prato verde, come quelli di tutti gli altri pedatori di football. Il watusso bianconero, come tutti i cacciatori degli altipiani della sua razza, corre leggero su cuscinetti d’aria. Avanza a testa dritta; caracolla quasi indolente, scarta, gira su se stesso e continua a danzare con il pallone legato da un invisibile elastico alla sua sottile caviglia di fondista. Passa la palla in corsa e staziona visibile e raggiungibile per soccorrere il compagno triangolatore. Se deve recuperare il pallone sfuggito le sue leve disegnano archi improbabili e i suoi piedi si fanno prensili per riprendersi il maltolto e ripartire. Solo quando decide di beffare ai 25 metri l’estremo difensore avversario, solo allora, i tacchetti del suo scarpino colorato, in appoggio, perforano il sostegno impalpabile che li sorregge leggero per affondare sulla zolla del campo a caricarsi dell’energia per disegnare la parabola imprendibile. Il tifoso bianconero, che per la prima volta lo ha visto apparire nel campo nobile e familiare di Villar Perosa, complice un destino beffardo e lungimirante che lo ha sottratto alle cure del, buon per noi, troppo temporeggiatore Ferguson, ha finalmente, lì dove i passaggi banali si tramutano in illuminazione artistica, l’interprete di un lungo tratto di futura gloria e di gigantomachie. Paul Pogba. Nella sequenza onomatopeica delle due P, intervallate da un attimo impercettibile di sospensione, c’è l’esplosione ripetuta - Pum, pam - che nei fumetti che ancora amiamo accompagna l’eroe vendicatore di torti nel duello finale.
Top player? No, The Artist, e per noi italiani figli del Rinascimento è il massimo.