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venerdì 26 aprile 2013

Lectio magistralis e nuovo PD per la Terza Repubblica



Il discorso del Napolitano furioso, il giorno del giuramento, è, per la sinistra italiana, l’epifania della ragione, la rivincita dura del riformismo nobile.  Per dirla con Hegel, come lo spirito aleggiava nella battaglia di Austerlitz, cosi l’astuzia della ragione ha trionfato nell’emiciclo di Montecitorio. A 88 anni, il giovane studente universitario che Amendola mise a guardia della stanza di Togliatti, nell’hotel Roma della Napoli liberata, ha pronunciato, davanti agli oltre 1000 rappresentanti del popolo, la più alta e vigorosa lezione politica. E non è un epilogo. È “il discorso” che non è mai stato pronunciato prima e che tanti comunisti italiani della mia età  hanno sempre atteso dal delfino di Giorgio Amendola.

Ed è una introduzione per una svolta politica radicale nel PD.

Lo dico soprattutto per i tanti giovani parlamentari eletti in questa legislatura dello stallo. Di fronte a loro sta l’urgenza di coniugare la fedeltà ai valori fondamentali di libertà, uguaglianza e solidarietà della nostra Carta costituzionale con la durezza del fare il possibile, scevri dalla frase inconcludente o, peggio, dall’estremismo infantile.

E lo dico a Matteo Renzi che più di tutti in questi mesi ha coagulato l’insofferenza di una generazione verso il politicismo delle oligarchie e la grettezza di una politica asfittica, senza anima, sempre alla rancorosa ricerca dello schmittiano nemico e perciò priva di empatia e compassione verso il proprio popolo. Il sindaco fiorentino, incarna, anche fisicamente, la passione, e la speranza della politica intesa come sfida che dà anche gioia - non tutte le macchine politiche gioiose sono destinate al fallimento -  percepite, nel confronto con i volti lividi e artificiali dei capipopolo contemporanei, come messaggio nuovo e attualissimo. E non certo risolvibile in una fiammata, in una contesa temporanea.

Il paese è stato sfiancato e frantumato nella propria coesione nazionale, degradato per la mancanza di cura che lo stato doveva assicurare e che questo stato, occupato dai vecchi partiti, si è limitato a dare a gruppi privilegiati e minoritari. Si è completamente consumato un patto politico e sociale e bisogna ridondarlo. Occorre un lavoro di lunga durata per cambiare questa Italia. Per questo gli innovatori hanno bisogno di un PD nuovo. Non basta, come io spesso ho reclamato, il ritorno allo spirito fondativo. Troppo è accaduto da quel lontano 2007, per pensare che si riaccenda un’alchimia virtuosa. Troppe le ossificazioni di grammatiche e stili per pensare che questi possano convivere ancora dentro un’unica cornice organizzativa e politica. Il PD nuovo, i suoi dirigenti e i suoi militanti devono costruire, a partire dalla rigorosa lettura da quello che è accaduto non dalle dimissioni di Walter Veltroni - dentro i partito, nelle istituzioni e nel paese – ma da oltre un ventennio,  le regole che fondano  la Terza Repubblica e danno alla nazione italiana la bussola e gli strumenti per navigare nel futuro del XXI secolo, dentro cambiamenti inediti che modificheranno,  equilibri geopolitici, egemonie e divisione internazionale del lavoro.

La terza Repubblica non può che essere presidenzialista, con un Presidente eletto come il Sindaco d’Italia, con una Camera dei deputati dove siano rappresentati proporzionalmente le opinioni politiche degli italiani per affrontare l’attività legislativa, con un Senato come Camera delle regioni e delle autonomia locali,  con una netta separazione del potere esecutivo da quello legislativo e giudiziario. Abbiamo bisogno, per tentare di mantenere il peso e ruolo che la la nostra intelligenza lavorativa e imprenditoriale  si è conquistata dal dopoguerra, di una governance legittimata direttamente dal popolo, non impiombata dalla pluralità delle diversità politiche nella propria azione di governo ma democraticamente temperata e capace di competere nella velocità delle decisioni che il processo di costruzione degli Stati Uniti d’Europa ci impone.

Quello che è avvenuto negli ultimi tre anni ci parla di un presidenzialismo che è già in qualche modo costituzione materiale: è nascita di cui il nuovo PD deve essere levatrice.

Cosa sarebbe accaduto se non avessimo avuto Giorgio Napolitano in gran parte del suo primo mandato? E di fronte allo stallo di posizioni inconciliabili tra di loro, nel Parlamento, cosa sarebbe accaduto al nostro sistema democratico senza il mandato bis al vecchio dirigente del PCI? E nel momento stesso del dibattito quirinalizio, quale era lo spirito che informava la pressione di strati ampi di opinione pubblica -  al netto della cinica strumentalizzazione grillina – intorno a figure qualitativamente alte della società civile, se non un volere irrompere dentro regole costituzionali che obbligavano ad altri e più mediati percorsi?

Si dirà che questo è accaduto per la eccezionalità della situazione politica creatasi con il tripolarismo parlamentare, ma questo rilievo non cambia la sostanza di quello che è avvenuto, anche perché in questi anni, nonostante le varie leggi elettorali non abbiamo assistito alla semplificazione del sistema partitico. Anzi.  Sia la storia francese che quella italiana ed europea stanno lì a dimostrare che le opinioni organizzate in partito si moltiplicano e non solo per interessi meramente corporativi. Ma anche in questo caso. Anche se la frantumazione partitica fosse esclusivamente corporativa, a maggior ragione dovremmo organizzarci per impedire che i possibili stalli affossino l’intero sistema paese.

Cosa dovremmo temere da un sistema presidenziale alla francese? Limitazione dei diritti del Parlamento? Limitazione del potere giudiziario? Non sembra che questo sia avvenuto – e sono ormai passati sessanta anni – in Francia. Anzi, lo spirito repubblicano ha sempre fatto argine all’insorgenza antisemitica, fascistica e xenofoba  che lì ha preceduto analoghi fenomeni
nostrani.  

La storia non fa salti ma quando una soluzione nuova è matura dentro la testa dei cittadini, ostacolarla diventa impossibile ed ha come effetto solo la semplificazione violenta e senza regole. Siamo di fronte a qualcosa di così esteso -  come è accaduto per l’odiato finanziamento pubblico dei partiti - che è vano esorcizzarlo con richiami a principi mostratisi nei fatti inetti o peggio con il richiamo, ancora una volta, al baubau  di Arcore, ritenuto immortale.

Partito nuovo, dunque, che si proponga di dare al Paese una nuova bussola. Un partito che ispiri e accompagni l’avvento di un nuovo personale politico democratico, dal profilo alto, competente, tecnico-scientifico, sperimentatosi nella soluzione dei problemi complessi, non nella demagogia e nella contemplazione della propria irriducibilità ideologica. Aperto, dunque, verso tutti, plurale, ma disciplinato nelle scelte e nelle decisioni, liberato dalle correnti, culturalmente autonomo dalle pressioni di poteri esterni. Non è il principio d’ordine che bisogna ricostituire, bensì quello di maggioranza omogenea. Deve valere, al proprio interno, per i gruppi dirigenti via via prevalenti, quella stessa vocazione maggioritaria che lo caratterizza all’esterno. L’introduzione delle primarie affianco ai congressi affida al vincitore la direzione e gli strumenti per realizzare i progetti sottoposti al voto, senza i condizionamenti dei perdenti. Al tempo stesso occorre tener separato il timone del partito da quello della premiership da individuare con le primarie.E questo deve valere sia nazionalmente che localmente, nel rispetto più rigoroso della legalità statutaria. Le pubbliche elezioni diventano il banco di prova. La sconfitta in esse obbliga al fisiologico ricambio.

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