Quello che è avvenuto in questi
giorni nelle urne per l’elezione del Quirinale era inevitabile. Si sono
concentrate in questa elezione - che non è mai stata facile neanche nel passato
ma che oggi, ha assunto un peso specialissimo per la mutazione della nostra
costituzione materiale – un groviglio di contraddizioni che il voto tripolare
ha reso quasi inestricabile. L’errore principale sta nelle mancate fisiologiche
dimissioni di Bersani dopo la non vittoria. Quelle dimissioni avrebbero avuto
il pregio politico di chiarire agli italiani
che c’erano stati un bocciato, Berlusconi con una emorragia di sei
milioni di voti, un rimandato, il PD con 3 milioni e novecentomila elettori che
se ne erano andati e un tumultuoso
apparire di un movimento di protesta. Quelle dimissioni sarebbero state un
potente e spontaneo segnale di ricevuto, avrebbero permesso a Giorgio Napolitano
di fare un governo di scopo, di eleggere la Presidenza della Repubblica
svincolandola dall’obbligo di garanzia di governi impossibili - larghe intesi e
governi di minoranza – e riandare al voto.
Pierluigi Bersani, sostenuto dai
suoi uomini più fedeli e da una cultura arrogante e settaria circolante
purtroppo nel corpo correntizio ed
eccitata a dismisura nella competizione delle primarie, ha scelto una linea che
in altri tempi si sarebbe definita semplicemente avventurista. Il risultato è
un capolavoro di inettitudine politica che ha regalato entrambi i fianchi a
Berlusconi e a Grillo. È possibile la guerra manovrata ma devi avere il
controllo del tuo esercito. L’ex
comunista e con lui la cerchia più ristretta hanno immaginato che il PD
fosse il PCI. Ma così non è e questa palese illusione è una colpa aggiuntiva.
Per questo ho parlato di dimissioni fisiologiche: il Partito democratico, per
la sua stessa fondazione non può
permettersi, pena la propria inattualità, gruppi dirigenti che procedano per
cooptazione o puri rimaneggiamenti di fronte alle sconfitte elettorali. Non
esiste per il PD l’alibi della
rivoluzione socialista e della missione
storica che permetteva al centralismo
democratico del PCI di assorbire le sconfitte lasciando sostanzialmente
invariati i gruppi dirigenti. Nel PD si misurano la competenza e il talento
politico nelle proposte per vincere le competizioni elettorali, come avviene in
tutti i sistemi occidentali. Ma questo equivoco dura da troppo tempo. Almeno
dal 1990. E non si scambi per rinnovamento la lotta dentro l’asse ereditario
del PCI. Gli Occhetto, i D’Alema, i Fassino, i Veltroni, passavano la mano ma
non cambiava la sostanza . Bersani paga, anche per i suoi limiti, la
conclusione di una storia accelerata dalla crisi di credibilità che ha
investito le oligarchie della seconda repubblica.
Ma il PD non è solo questa
storia. Il PD ne contiene ora un’altra che si è affacciata prepotentemente con
le primarie ed è quella più moderna, quella che parla la lingua del XXI secolo
e non vuole chiedere ai suoi membri appartenenze ideologiche ma solo passione, talento, competenze, merito
e sperimentazioni misurabili. Per questo non bisogna fasciarsi la testa.
Smettiamola con questa ipocrita retorica del bene comune che abbiamo
sperimentato non esistere. L’unico bene comune apprezzabile è quello di
politici preparati e giustamente ambiziosi che sappia mantenersi sempre una
spanna più in basso del bene della cosa pubblica. In “questa spanna più in
basso” si misura il valore del fare politica. E smettiamola anche - capisco che
non sia facile perché di menti strutturate e abituate alla politica come
scienza e non come spettacolo e clientela non è facile trovarne né in quelli
che la fanno nè in quelli che la
commentano - di subire la pressione dei mi piace, dei tweet, dell’emotività
adolescenziale di chi non ha alcuna educazione istituzionale. Il PD è un
partito di massa presente e radicato tra la gente. Chi pensi che il cambio di
questa classe dirigente ne postuli la
dissoluzione sbaglia i suoi calcoli. Un ricambio c’è. L’”astuzia della ragione”
si serve anche degli errori e dei comportamenti smodati per farsi strada. E in
queste ore quello che alcuni dei protagonisti si sono proposti di fare, i loro
scopi individuali, stanno determinando
la più grande e drammatica epifania del nuovo che c’è e che invano si è tentato
di soffocare. È un bene. E non conviene attardarsi con gli erranti in cattiva
fede. Tracciamo una riga e separiamoci definitivamente.
Coraggio Democratici, sù la
testa. Non regaliamo ai muscoli artificiosi del Cavaliere e agli insulti di
Grillo una vittoria che non hanno e che dovranno sudarsi duramente.Non
facciamoci condizionare dalla miseria di
commentatori e sostenitori mediatici più orridi delle oligarchie che li
commissionano. Senza il PD, intanto, non
si elegge nessun Presidente della Repubblica. Ridiamoci una bussola ferma e riavviamo
il ragionamento con il paese da dove è stato arrestato con la furbizia dolosa e
il potere degli apparati ora scompaginati: con un altro spirito, con un diverso
entusiasmo e con la credibilità di chi ha mostrato coerenza e ostinazione.
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