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sabato 20 aprile 2013

Democratici, sù la testa


Quello che è avvenuto in questi giorni nelle urne per l’elezione del Quirinale era inevitabile. Si sono concentrate in questa elezione - che non è mai stata facile neanche nel passato ma che oggi, ha assunto un peso specialissimo per la mutazione della nostra costituzione materiale – un groviglio di contraddizioni che il voto tripolare ha reso quasi inestricabile. L’errore principale sta nelle mancate fisiologiche dimissioni di Bersani dopo la non vittoria. Quelle dimissioni avrebbero avuto il pregio politico di chiarire agli italiani  che c’erano stati un bocciato, Berlusconi con una emorragia di sei milioni di voti, un rimandato, il PD con 3 milioni e novecentomila elettori che se ne erano andati  e un tumultuoso apparire di un movimento di protesta. Quelle dimissioni sarebbero state un potente e spontaneo segnale di ricevuto, avrebbero permesso a Giorgio Napolitano di fare un governo di scopo, di eleggere la Presidenza della Repubblica svincolandola dall’obbligo di garanzia di governi impossibili - larghe intesi e governi di minoranza – e riandare al voto.

Pierluigi Bersani, sostenuto dai suoi uomini più fedeli e da una cultura arrogante e settaria circolante purtroppo nel corpo correntizio  ed eccitata a dismisura nella competizione delle primarie, ha scelto una linea che in altri tempi si sarebbe definita semplicemente avventurista. Il risultato è un capolavoro di inettitudine politica che ha regalato entrambi i fianchi a Berlusconi e a Grillo. È possibile la guerra manovrata ma devi avere il controllo del tuo esercito. L’ex  comunista e con lui la cerchia più ristretta hanno immaginato che il PD fosse il PCI. Ma così non è e questa palese illusione è una colpa aggiuntiva. Per questo ho parlato di dimissioni fisiologiche: il Partito democratico, per la sua stessa fondazione  non può permettersi, pena la propria inattualità, gruppi dirigenti che procedano per cooptazione o puri rimaneggiamenti di fronte alle sconfitte elettorali. Non esiste  per il PD l’alibi della rivoluzione socialista  e della missione storica  che permetteva al centralismo democratico del PCI di assorbire le sconfitte lasciando sostanzialmente invariati i gruppi dirigenti. Nel PD si misurano la competenza e il talento politico nelle proposte per vincere le competizioni elettorali, come avviene in tutti i sistemi occidentali. Ma questo equivoco dura da troppo tempo. Almeno dal 1990. E non si scambi per rinnovamento la lotta dentro l’asse ereditario del PCI. Gli Occhetto, i D’Alema, i Fassino, i Veltroni, passavano la mano ma non cambiava la sostanza . Bersani paga, anche per i suoi limiti, la conclusione di una storia accelerata dalla crisi di credibilità che ha investito le oligarchie della seconda repubblica.

Ma il PD non è solo questa storia. Il PD ne contiene ora un’altra che si è affacciata prepotentemente con le primarie ed è quella più moderna, quella che parla la lingua del XXI secolo e non vuole chiedere ai suoi membri appartenenze ideologiche  ma solo passione, talento, competenze, merito e sperimentazioni misurabili. Per questo non bisogna fasciarsi la testa. Smettiamola con questa ipocrita retorica del bene comune che abbiamo sperimentato non esistere. L’unico bene comune apprezzabile è quello di politici preparati e giustamente ambiziosi che sappia mantenersi sempre una spanna più in basso del bene della cosa pubblica. In “questa spanna più in basso” si misura il valore del fare politica. E smettiamola anche - capisco che non sia facile perché di menti strutturate e abituate alla politica come scienza e non come spettacolo e clientela non è facile trovarne né in quelli che  la fanno nè in quelli che la commentano - di subire la pressione dei mi piace, dei tweet, dell’emotività adolescenziale di chi non ha alcuna educazione istituzionale. Il PD è un partito di massa presente e radicato tra la gente. Chi pensi che il cambio di questa classe dirigente ne  postuli la dissoluzione sbaglia i suoi calcoli. Un ricambio c’è. L’”astuzia della ragione” si serve anche degli errori e dei comportamenti smodati per farsi strada. E in queste ore quello che alcuni dei protagonisti si sono proposti di fare, i loro scopi individuali,  stanno determinando la più grande e drammatica epifania del nuovo che c’è e che invano si è tentato di soffocare. È un bene. E non conviene attardarsi con gli erranti in cattiva fede. Tracciamo una riga e separiamoci definitivamente.

Coraggio Democratici, sù la testa. Non regaliamo ai muscoli artificiosi del Cavaliere e agli insulti di Grillo una vittoria che non hanno e che dovranno sudarsi duramente.Non facciamoci condizionare  dalla miseria di commentatori e sostenitori mediatici più orridi delle oligarchie che li commissionano. Senza il PD, intanto,  non si elegge nessun Presidente della Repubblica. Ridiamoci una bussola ferma e riavviamo il ragionamento con il paese da dove è stato arrestato con la furbizia dolosa e il potere degli apparati ora scompaginati:  con un altro spirito, con un diverso entusiasmo e con la credibilità di chi ha mostrato coerenza e ostinazione.    

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