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giovedì 21 aprile 2011

Il Cefalo d'oro

Il Cefalo d’oro




Capitolo 1



Tra le rive che vanno da Ponte Sisto e Ponte Sublicio si annida, da oltre duemila anni, con una preferenza per quella sinistra, il Cefalo d’oro. Questo cefalo deve il suo nome allo splendore della pelle che sembra forgiata con una lamina del nobile metallo. Narra la leggenda che un cefalo maschio, di proporzioni invero notevoli, in seguito all’affondamento, tra l’Isola Tiberina e il Porto di Ripa grande, di una chiatta del banchiere Crasso, che trasportava alcuni sacchi di finissima polvere d’oro proveniente dalle miniere dell’Etiopia, investito dalla nuvola liberatasi dai sacchi lacerati, ne rimanesse definitivamente dorato. E che assieme allo splendore aureo acquisisse una vita immortale. Il Cefalo d’oro - Aureus Cephalus - lo chiamavano i Romani, appariva di tanto in tanto in quel tratto del biondo Tevere che abbiamo ricordato, attirando con i suoi splendenti barbaglii, nelle giornate assolate, l’attenzione dei pescatori, dei marinai e degli Edili che ispezionavano le opere murarie del Porto, dei ponti e delle fognature.. E fu soprattutto la testimonianza di questi ultimi a fare uscire il singolare pesce dalla leggenda del volgo e farlo entrare nell’elenco delle divinità capitoline, nella fattispecie, di quelle fluviali.






La prima testimonianza, storicamente databile, risale ai primi giorni del mese di marzo del 44 a.c. ad opera dagli Edili Plebei Furio Calpurnio Cilla e Vezio Sessanio Calvo riportata da Valerio Anneo Maggiore nei suoi Mensuales Urbis ( 70 a.c.- 7 d.c.) che citando i due amministratori romani scrive “…amplissimi saltus ex flavis undis viginti tres Aurei Cephali ante plebis Urbis admiratos oculos occurrerunt”. Qualche settimana dopo, quando si contarono i colpi inferti dai congiurati al corpo di Giulio Cesare, i salti del Cefalo d’oro acquisirono il senso dell’avvertimento profetico e conquistarono definitivamente il popolo di Roma al culto del divino pesce. Ma soprattutto i banchieri, gli usurai - Marco Giunio Bruto (1) ne aveva una venerazione tale che gli aveva dedicato un tempietto nei pressi della sua casa - gli eletti alle cariche pubbliche, gli abitanti di Ripa, le donne sterili, i panificatori (2), i calvi, gli omosessuali (3) lo adoravano come dio protettore , dedicandogli riti sacrificali,. La plebe, non avendo grandi mezzi , si recava sulle rive del Tevere a scaricarvi gli avanzi dei magri pasti che, seppure ignoriamo quanto fossero graditi al mitico cefalo, certamente contribuirono alla moltiplicazione eccezionale di quelli tradizionali E questa improvvisa, abbondante pescosità di quel tratto di fiume fu ascritta, manco a dirlo, alla benevolenza della nuova divinità fluviale.






Secondo Marco Lucio Tappulo ( Preneste 5-65 d.C.), nella sua Historia Divinitatis, la visione del Cefalo d’oro tra i flutti del Tevere era segno sicuro di fortuna miracolosa e questo spiegava la predilezione dei Romani a passeggiare tra Ponte Rotto e Ponte Sublicio, dove più di frequente, prima del mezzodì, era stato avvistato il divino luccichio. Sempre secondo lo storico tuscolano


se, bagnandosi in quel tratto di Tevere, si veniva toccati dal pesce divino, questo assicurava la


elezione ad una delle tante cariche pubbliche di Roma. I più ricchi tra i Romani, che aspiravano alle cariche più importante e redditizie, avevano delle barche attraccate intorno all’isola tiberina usando le quali solevano bagnarsi in punti diversi delle due rive, privilegiando quelle più vicine agli scarichi delle grandi fognature, dove i cefali amano soggiornare. Un altro storico della Roma post


repubblicana, Marco Anneo Calla, scriba maggiore di Ottaviano, ci racconta che


“…Octavianum proxime rivae Ripae natantem pridie kalendas Maias civites romani aureum cephalum cum manibus multum ac diu tangere viderunt “ . E fu proprio Ottaviano, il romano che aveva più a lungo tenuto in mano il pesce dorato, diventato Augusto imperatore, a istituire il Collegio dei Sacerdoti del Cefalo d’oro.







Note



(1) Marco Giunio Bruto, il disinteressato filosofo stoico e principale congiurato delle fatidiche Idi di Marzo, era noto tra le famiglie patrizie come strozzino






(2) I fornai di Ripa, in onore alla divinità fluviale , durante i Ludi Piscatorii, che si tenevano


dalle idi di Giugno alle idi di Settembre, panificavano un pane con la forma di cefalo e


spennellato con tuorlo d’uovo per dargli, dopo la cottura, una magnifica aurea facies






(3) La società dell’antica Roma era, diremmo oggi, machista e come tale tollerava la


omosessualità attiva purchè non esercitata contro i giovanetti romani. Fu Cesare, passivo


amante in Numidia, ad allargare un po’ le maglie. Secondo Valerio Flacco Trebonio,


nella sua perorazione nel processo contro Manlio Tullio Pisone, accusato di pederastia nei confronti di numerosi adolescenti, esisteva nell’Urbe un movimento clandestino, denominato


Iuvenes Cephalenses, che si batteva affinché il senato proponesse una legge più liberale.


















Capitolo 2






Fino all’Editto di Milano (313 d.C), voluto da Costantino per portare dalla sua parte i Cristiani, il Cefalo d’oro fu una divinità molto amata e popolare. Con la avvenuta legalizzazione della religione cristiana, e per via delle aperte simpatie accordatele dall’imperatore, per la nostra pagana divinità fluviale iniziarono tempi molto duri. Naturalmente la parte di romani rimasta pagana continuò apertamente ad adorare l’Aureus Cephalus che, suo malgrado, divenne il simbolo della aspra lotta e delle congiure che i nemici pagani di Costantino frequentemente alimentavano. Il popolo delle Catacombe, che aveva tra le sue icone quella di un pesce stilizzato, dichiarò tuttavia guerra aperta all’antico abitante del Tevere, giungendo persino a caldeggiarne la cattura con una taglia di 100 solidi . Quell’antico culto era così indigesto alla


nuova emergente religione ufficiale che i tentativi di rimuoverlo dalla coscienza popolare furono numerosi e si servirono di ogni mezzo. Racconta nelle sue Memorie, lo scrittore di oommedie, l’alessandrino Eleuterio Marciano : “chiamato a Roma a rappresentare con i miei attori alcune delle mie più recenti opere, in occasione dei festeggiamenti per la donazione dei palazzi sul Laterano, fatta da Costantino al vescovo cristiano di Roma, mi capitò di assistere a feroci tumulti scoppiati nei giardini dove la plebe era stata invitata. Più tardi, sedati i disordini dai pretoriani Imperiali, Licinio Vella, tesoriere dell’imperatore, mi raccontò la ragione di tanta furiosa violenza: un folto gruppo di abitanti dei quartieri trasteverini, e in particolare quelli del Porto di Ripa grande, avevano dato l’assalto ai banchi di alcuni cristiani che friggevano piccoli cefali, cospargendoli di farina bagnata nell’uovo, in guisa tale che, dopo la cottura, apparivano come dorati. A me che, digiuno delle cose di Roma, non comprendevo quale offesa un tal modo di friggere il pesce potesse causare, il mio amico Vella, venne in soccorso, spiegandomi che molti dei Romani rimasti fedeli al culto del Cefalo d’oro, ritenevano quel tipo di cucina una provocatoria e voluta manifestazione di blasfemia da parte dei Cristiani.”






E che non si trattasse di episodi isolati, in quella difficile transizione dell’Impero Romano, lo dimostra il divieto imperiale del Marzo del 325 d.C. che stabilì che negli annuali festeggiamenti del Santo Giovanni nei giardini del Laterano si potessero cucinare e somministrare solo lumache. Il genio politico di Costantino, adoratore del Dio Sole, ma con i suoi labari segnati dalla croce, ancora una volta aveva trovato il modo di evitare di scontentare gli uni e gli altri! D’altra parte il Cefalo d’oro continuava a compiere i suoi prodigi e a beneficare chi avesse in sorte una sua, pur fugace, toccatina. Lo stesso Costantino, navigando da Ripa grande verso Ostia, nell’anno 308, aveva osservato, di persona, la dorata divinità fluviale sbarazzarsi, l’uno dopo l’altro, di quattro lucci dalle dentate bocche fameliche. E non dubitò, neanche un istante, il giovane figlio di Costanzo Cloro, che il Dio del Tevere gli stava indicando come comportarsi con i suoi colleghi concorrenti: Galerio, Massenzio, Massimino e Licinio.! Cosa che puntualmente fece: due, sconfitti sul campo, morirono oscuramente, mentre Massenzio e Licinio furono messi a morte su suo ordine.. Lo stesso Licinio Vella, il potente e smisuratamente ricco, banchiere di Costantino - comes sacrorum largitionum - è, a proposito dei prodigi del Cefalo d’oro, un testimone ricco di particolari. Nella sua autobiografica De Fundatione Novae Urbis - la costruzione di Costantinopoli - oltre a ricordare l’episodio che coinvolse Costantino (4) non nasconde che la sua fortuna di Tesoriere dell’Impero era dovuta a un bacio profondo che lui. sedicenne giovanetto, ebbe in sorte dal pesce divino mentre si bagnava al largo dell’Isola tiberina assieme al futuro imperatore, di lui più anziano di quattro anni.(5).






Nonostante i potenti dell’epoca continuassero a tenerne in conto i poteri propiziatori e profetici, per l’Aureus Cephalus, con il periodo aperto dalle riforme costantiniane, iniziò un epoca difficile e oscura dove le tracce della sua compassionevole attività in favore della progenie romana sembrano a volte sparire per lunghi periodi.









Note



(4)“Nel Marzo del 308 d.C.- racconta Licinio Vella – mentre muoveva da Roma verso Ostia, Costantino vide affiorare il Cefalo d’oro circondato da quattro lucci dalle orrende bocche dentate. In pochi attimi il Dio fluviale si scagliò dapprima verso due di essi costringendoli, per sfuggirgli, a trovare la morte sotto i colpi dei remi dei marinai; poi, voltosi verso gli altri e due, ingaggiò con ciascuno di essi un duello nel quale staccò loro le teste.”






(5)“Alle idi del settembre del 294 d.C. - è ancora Licinio Vella a raccontare - io e Costantino, appena nominato Tribuno militare dal padre Costanzo Cloro, ci tuffammo nelle acque del padre Tevere, nei pressi dell’Isola Tiberina e mentre risalivamo in superficie la testa di un grande cefalo si avvicinò al mio viso mi baciò a lungo ( hiantem profunde osculatum fuit).Grande fu la mia gioia quando, risalito in superficie, il grande cefalo si staccò dalle mie labbra e vidi alla luce del sole gli aurei riflessi del Divino Pesce ( Divini Piscis).” Va detto che nella Roma imperiale i detrattori di Licinio Vella alimentavano in mille modi le dicerie sui presunti rapporti omosessuali tra Costantino e il suo banchiere. E a proposito di questo episodio, riportato nella monumentale e agiografica autobiografia di Vella, potete ben immaginare le sconcezze che fiorirono su chi stesse a bocca aperta - hiantem - e di chi fosse il divinus piscis. E Marco Porcio Bassiano, un annalista dell’epoca costantiniana, racconta dell’enorme successo che ebbe una compagnia di teatranti che sceneggiò il famoso episodio del bacio del Dio nel Tevere come una fellatio alla quale il neo tribuno sottomise il più giovane amico.


















Capitolo 3





Nella Historia Romuli Augustuli exilii mortisque, Marcello Stazio ( Ravenna 420-481 d.C.) riporta tre significative apparizioni del Cefalo d’oro datate marzo del 410, maggio del 455 e 476 d.C.





La prima ebbe come teatro la riva del Tevere all’altezza di Porta Portuense. Il pesce divino fu visto sostare un giorno intero, immobile, al centro del fiume con lo sguardo verso il Porto di Ostia e infine dopo essersi cibato di giovani cefali risalire la Cloaca Massima. Fu subito evidente al popolo romano che quel pasto cannibalesco era presagio di grandi sventure e dolori e che le sciagure sarebbero giunte dal mare. Di li a qualche giorno infatti, il capo dei Goti, Alarico, cinse d’assedio la città che dopo cinque mesi fu ridotta alla fame e alla disperazione.(6)





Quarantacinque anni dopo il Cefalo d’oro comparve nello stesso tratto di fiume comportandosi nell’identico modo dell’agosto del 410. A saccheggiare Roma questa volta fu il re dei Vandali, Genserico. A dispetto del nome, quei barbari si limitarono a farsi consegnare tutte le ricchezze della città senza infierire sulla popolazione.(7) Molte famiglie, avvertite dal presagio del Cefalo d’oro, avevano comunque provveduto a nascondere molti dei loro beni monetari nelle grotte di tufo della via Ardeatina.






Ma per dare ai romani il presagio della definitiva caduta dell’Impero d’Occidente, l’antica divinità fluviale fece le cose in grande. Alle calende di settembre del 476, il divino cefalo aggredì una lupa che si dissetava sulla riva prospiciente il Foro Boario e le staccò con un morso una mammella. Con il macabro trofeo nella bocca, il Cefalo d’oro risalì la corrente e depositò il brandello insanguinato davanti il mausoleo di Adriano, ormai possedimento e dimora dei Pontefici cristiani. La lupa, simbolo della nascita di Roma, fu trovata morta dissanguata sull’Isola Tiberina da alcuni marinai goti che ne scempiarono il corpo per trarselo nella loro patria , come ricordo.






Lo storico Stazio afferma che fu a tutti chiaro che il presagio non poteva che riferirsi alla fine del ruolo di Roma nell’Impero. Divisi invece i commentatori sul significato della deposizione del capezzolo insanguinato sul greto di Castel Sant’Angelo.


Secondo i cristiani, il Cefalo d’oro aveva voluto con quel gesto significare che solo la Chiesa di Pietro avrebbe potuto restituire a Roma gli antichi fasti; secondo i pagani e gli antipapisti, già allora numerosi, il divino pesce voleva indicare,nei nuovi inquilini della Mole adriana, i veri responsabili della triste fine di Roma.(8)


Dovremo attendere quasi ottocento anni per capire chi, in quel settembre del 476 d.C., quando Odoacre depose il diciassettenne Romolo Augustolo, avesse correttamente interpretato i movimenti del dorato dio fluviale.














Note






(6) Furono gli stessi popolani della città, ormai giunti a cibarsi dei morti, ad aprire ai Goti la Porta Salaria. Alarico disgustato dalla perfidia, dalla corruzione e dalle manovre della nobiltà romana avrebbe voluto mettere a ferro e a fuoco la città; sembra però che fu convinto dal papa


Innocenzo I a limitare il saccheggio a soli tre giorni, durante i quali furono soprattutto gli schiavi liberati a darsi a qualche eccesso. Secondo Gregorovius furono in gran parte risparmiate le ricchezze e le basiliche dei cristiani.






(7) Genserico sbarcò ai primi di maggio ad Ostia provenendo da Cartagine. Massimo Petronio, l’imperatore in carica, tentò di darsela a gambe senza apprestare nessuna difesa. Fu riconosciuto, mentre tentava di fuggire con il suo tesoro, e decapitato. Per quattordici giorni i Vandali depredarono sistematicamente Roma con un occhio di riguardo ai beni della Chiesa cristiana. E quando Gianserico tornò a casa, divise il suo enorme bottino con il vescovo ariano di Cartagine, di nome Deogratias!






(8) Il decadimento di Roma, dopo il sacco di Genserico é totale. La rovina delle famiglie patrizie, la miseria della gran parte della popolazione, le ultime lotte intestine per la porpora imperiale hanno ridotto la citta dei cesari a un territorio di nessuno, un cantiere dove gli antichi palazzi e monumenti vengono spogliati per costruire chiese e basiliche cristiane.






Capitolo 4






“Uno vetturale da po’ vespero de die septe de septembre AD MCCCIII ne ijo travagliato davanti allo Tribuno a raccontare che abia visto denanti a Castiello uno pescie enorme de colore de auro . Isso pescie ne levava alto de l’acqua et rideva come embriago. Et tre ammasciatori de Capranica che ivano sopre lo ponte co isso medesimo nettamente narcarono le ciglia de la meravija a la valentitie see..Da po’ de una hora a Ripa Granne li huomini e le donne se irono con parienti et con amici al Porto co luminaria a ballare in honore del piscie divino che ene tornatoa Roma” Così scrive nei suoi “Annali de Roma” Clemente Alimenti Notaio del Tribuno Giacomo Caetani. “Non v’è dubbio - come scrive l’antropologo Benedetto Solvetti, massimo studioso delle divinità fluviali del Tevere - che l’episodio riguardava la ricomparsa a Roma del Cefalo d’oro. Dopo più di otto secoli riappariva, tra i flutti del Tevere, la divinità fluviale più popolare della Roma imperiale. Riappariva nello stesso punto del fiume dove, nel 475 d.C, era stato visto per l’ultima volta, mentre depositava, sul greto sotto Castel Sant’Angelo, il brandello di mammella strappato a una lupa. I non pochi cultori del divino pesce tiberino - presenti soprattutto tra il popolo di Trastevere - nel festeggiare con una fiaccolata all’Isola Tiberina il ritorno del dio, si interrogarono sul significato di quella apparizione, senza venirne a capo. Ma quando il giorno dopo si sparse in tutta Roma la notizia dello schiaffo dato ad Anagni da Sciarra Colonna al papa Bonifacio VIII , fu chiaro a tutti che i salti e le risate del Cefalo d’oro erano state una manifestazione di gioia per il gesto sacrilego del nobile romano. Dagli studiosi, che in epoche successive si interessarono dell’originale mito, questa ipotesi è stata sempre considerata la più probabile e, inoltre, spiegava inequivocabilmente il senso dell’apparizione del 475, per molto tempo rimasto misterioso” Insomma il Cefalo d’oro attribuiva ai papi e ai papisti il decadimento e la rovina di Roma e dei romani! A Roma in quegli anni il degrado era assoluto. In proposito il Notaio Alimenti scrive con la sua prosa colorita non priva di drammaticità: “la Cittate de Roma stava in grannissimo travaglio. Rettori non havea; onne die se commattea; da onne parte se derobava; dove era luoco de Verijne se betoperavano; non c'era reparo; le piccole zitelle se ficcavano, e menavanose a dishonore; la moglie era toita allo marito nello proprio lietto; li lavoratori quanno ivano fora a lavorare erano derobati, dove? su nelle porte de Roma; li Pellegrini, li quali viengono per merito delle loro anime alle sante Chiese, non erano defesi ma erano scannati e derobati; li Prieti stavano per male fare. Onne lascivia, onne male, nulla iustitia, nullo freno; non c'era più remedio; onne perzona periva; quello haveva più rascione, che più poteva colla spada. Non c'era aitra sarvezza se non che ciascheduno se defenneva con parienti et con amici; onne die se faceva adonanza de armati..”.






Il malumore del popolo era forte ma non v’era nessuno che ne rianimasse la combattività e la dignità perduta. Il ritorno del Cefalo d’oro fu come una scarica elettrica che attraversò, da Trastevere a Parione, le coscienze rassegnate. Comparvero a Campo de’ Fiori e sui ponti, da quello Rotto fino a Ponte Sant’Angelo, disegni raffigurante l’antica divinità fluviale con la scritta SPQR. La reazione del Vaticano fu immediata e per l’occasione venne rispolverata la vecchia taglia, decisa ai tempi di Costantino, portandola a 1000 fiorini. Attirati da quella somma assolutamente ragguardevole si precipitarono a Roma pescatori di trote della cattolica svizzera e pescatori di storioni del Volga. Tutti avevano in animo di guadagnarsi la taglia e dall’alba al tramonto si potevano osservare questi provetti pescatori, arrivati da mezza Europa, stazionare sulle rive del Tevere tra l’Isola tiberina e Ponte Sublicio. Non di rado venivano fatti segno di un fitto lancio di ortaggi e frutta marcia da parte dei seguaci del Cefalo d’oro. Ma ci fu anche qualcuno al quale andò molto peggio. Un pescatore svizzero e uno belga, che alloggiavano presso un albergo vicino Campo de’ fiori, furono trovati con la gola squarciata in via dei Giubbonari. Il Tribuno della città fece arrestare Jolanda Cecconi, prostituta e proprietaria dell’albergo, nota per il suo attaccamento al divino cefalo. Con lei fu rinchiuso a Castel Sant’Angelo anche il suo amante Furio Bartocci, ritenuto il capo dell’organizzazione dei rinati Juvenes cephaleses. Furono impiccati, dopo un processo sommario, il 15 giugno 1319. Ma tanta insensata ferocia non scoraggiò i fedeli del pesce sacro che crescevano sempre più numerosi, contestando apertamente il potere temporale della Chiesa di Roma.






Nel luglio del 1331, Cola, il giovane figlio di Lorenzo, l’oste della Taverna dell’Isola, tornò a Roma da Anagni, dove aveva studiato grazie all’interessamento di uno zio materno. Il 15 si era recato dal notaio Mancini per vendere la taverna del padre, nel frattempo deceduto. Il vecchio Notaio, che apprezzava i progressi fatti dal giovane negli studi di diritto e la sua notevole eloquenza, lo volle presso di sé come coadiutore. Quello stesso giorno, per via dell’afa che avvolgeva la città, Cola decise di fare un tuffo nel Tevere per cercare un po’ di refrigerio.






Capitolo 5






Orso degli Anguillara aveva organizzato una gita sul Tevere per il suo amico e poeta Francesco Petrarca. Da quando era giunto a Roma da Avignone, dove lavorava come canonico al servizio del Cardinale Giovanni Colonna, il letterato aretino - giovane negli anni ma onusto di studi classici e di raffinata erudizione - aveva insistito con il nobile di Capranica, affinché lo portasse a navigare il fiume di Roma tra Ponte Sisto e Ponte Sublicio. Proprio nel tratto dove, secondo le sue letture, albergava il mitico dio del Tevere, l’Aureus Capito, il Cefalo d’oro.






Orso, legato a Francesco da un affetto genuino e da una stima ancora più grande, fece per l’ occasione le cose in grande. Chiese al suo amico,Giovanni Malagone, uno dei suoi barconi più grandi e, sistemato sul ponte un gruppo di musici e un attore per leggere i componimenti del poeta, invitò, per la gita fluviale, un gruppo tra le più belle e giovani romane. Non mancava tra l’altro la porchetta di Ariccia, dono del suo amico Chigi e un paio di botticelle di cesanese del Piglio che Giacomo Colonna, anche lui tra i gitanti, aveva tratto seco dalle sue cantine di Anagni.






Il destino o il disegno divino (9) fecero incrociare al sonante barcone, carico della creme di Roma, l’Isola Tiberina proprio nel momento che il giovane Cola, figlio di Rienzo, si tuffava tra i biondi flutti in cerca di refrigerio. Il giovane corpo muscoloso e ignudo di Cola, il suo fiero viso, incorniciato da lunghi riccioli neri richiamarono le garrule esclamazioni di Lucrezia Pallavicini e, mentre le attenzioni del gruppo delle blasonate adolescenti si spostavano rapidamente dalla bellezza delle metriche a quella delle membra svelate del vigoroso plebeo, fu Giacomo Colonna a riconoscere nel nuotatore, lo studente modello, frequentatore assiduo della biblioteca avita del suo palazzo di Anagni.






Francesco Petrarca, si era sistemato, sin dalla partenza, sul lato sinistro della larga prora del barcone, intento a scrutare sia le rive che il centro del fiume. Fu così testimone, prima di ogni altro, di un evento che avrebbe fatto incrociare il suo destino con quello grande e fatale del giovane nuotatore.






Un cefalo di proporzioni insolite, luccicante di lampi dorati, cominciò a saltare sopra il corpo di Cola di Rienzo che nuotava a un dipresso dell’imbarcazione. Il pesce seguiva il giovane emergendo da un lato, scavalcandolo con un salto e rituffandosi sull’altro fianco del nuotatore e sembrava volesse onorarne il vigoroso procedere tra i flutti. Fu solo all’altezza del Porto di Ripa che i salti cessarono dopo che il pesce, per pochi istanti, aveva afferrato, strappandone una ciocca, i neri capelli di Cola.






Giacomo Colonna, pieno di stupore per l’accadimento, si volse verso l’amico Francesco che, con lo sguardo rapito dalla scena sussurrò: “ E’ il Cefalo d’oro, il dio del Tevere…- e poi con voce febbrile gli chiese - Dimmi, Giacomo, tu conosci quel giovane. Devo assolutamente incontrarlo.”






A Francesco Petrarca, profondo conoscitore del mito del pesce divino, caro ai Romani, non era infatti sfuggito il significato profetico di quell’evento. Nacque così un sodalizio culturale e politico tra il grande poeta e letterato che credeva nella rinascita delle genti italiche intorno a un rinnovamento fondato sullo spirito della classicità romana e il giovane e brillante coadiutore di notaro, appassionato dei fasti della Roma imperiale, verso cui la natura era stata prodiga di talento oratorio e seduzione fisica.






Purtroppo né l’uno né l’altro interpretarono correttamente l’apparizione del Cefalo d’oro Essa presagiva sì un grande ruolo di Cola nella storia delle genti italiche ma ne indicava anche il fatale destino. Questa non perfetta interpretazione delle evoluzioni della divinità fluviale fu per il Petrarca la causa di una cocente delusione politica che lo portò a dedicarsi completamente alla sua opera letteraria. Per Cola di Rienzo andò peggio perché a quarantuno anni ci rimise la testa. Fu un vero peccato. Perché la testa di Cola di Rienzo aveva partorito delle leggi certamente notevoli che avevano entusiasmato il popolo e ancora oggi avrebbero un sicuro valore. A riprova riportiamo alcuni brani di un cronista anonimo dell’epoca:










“Ora prenne audacia Cola de Rienzi, benché non senza paura, e vaone una collo vicario dello papa, e sallìo lo palazzo de Campituoglio anno Domini MCCCXLVI[I]. Aveva in sio sussidio forza da ciento uomini armati. Adunata grannissima moititudine de iente, sallìo in parlatorio, e sì parlao e fece una bellissima diceria della miseria e della servitute dello puopolo de Roma. Puoi disse ca esso per amore dello papa e per salvezza dello puopolo de Roma esponeva soa perzona in pericolo. Puoi fece leiere una carta nella quale erano li ordinamenti dello buono stato. Conte, figlio de Cecco Mancino, la lesse brevemente. Questi fuoro alquanti suoi capitoli:






Lo primo, che qualunche perzona occideva alcuno, esso sia occiso, nulla exceptuazione fatta.


Lo secunno, che li piaiti non se proluonghino, anco siano spediti fi' alli XV dìe.,


Lo terzo che nulla casa de Roma sia data per terra per alcuna cascione, ma vaia in Communo.(10)


Lo quarto, che in ciasche rione de Roma siano auti ciento pedoni e vinticinque cavalieri per communo suollo, daienno ad essi uno pavese de valore de cinque carlini de ariento e convenevile stipennio. (11)






Lo quinto, che della Cammora de Roma, dello Communo, le orfane e•lle vedove aiano aiutorio.


Lo sesto, che nelli paludi e nelli staini romani e nelle piaie romane de mare sia mantenuto continuamente un legno per guardia delli mercatanti.


Settimo, che li denari, li quali viengo dello focatico e dello sale e delli puorti e delli passaii e delle connannazioni, se fossi necessario, se despennano allo buono stato.(12)


Ottavo, che•lle rocche romane, li ponti, le porte e•lle fortezze non deiano essere guardate per alcuno barone, se non per lo rettore dello puopolo.


Nono, che nullo nobile pozza avere alcuna fortellezze.


Decimo, che li baroni deiano tenere le strade secure e non recipere li latroni e li malefattori, e che deiano fare la grascia so pena de mille marche d'ariento.


Decimoprimo, che della pecunia dello Communo se faccia aiutorio alli monisteri. Decimosecunno, che in ciasche rione de Roma sia uno granaro e che se proveda dello grano per lo tiempo lo quale deo venire. (12)


Decimoterzio, che se alcuno Romano fussi occiso nella vattaglia per servizio de Communo, se fussi pedone aia ciento livre de provisione, e se fussi cavalieri aia ciento fiorini.


Decimoquarto, che•lle citate e•lle terre, le quale staco nello destretto della citate de Roma, aiano lo reimento dallo puopolo de Roma.


Decimoquinto, che quanno alcuno accusa e non provassi l'accusa, sostenga quella pena la quale devessi patere lo accusato, sì in perzona sì in pecunia.(13)






Moite aitre cose in quella carta erano scritte, le quale perché moito piacevano allo puopolo, tutti levaro voce in aito e con granne letizia voizero che remanessi là signore una collo vicario dello papa. Anco li diero licenzia de punire, occidere, de perdonare, de promovere a stato, de fare leie e patti colli puopoli, de ponere tiermini alle terre. Anco li diero mero e libero imperio quanto se poteva stennere lo puopolo de Roma.” L’8 ottobre 1354, Cola di Rienzo, a conclusione di un settennato che lo aveva visto ascendere come Tribuno di Roma, sostenuto da Petrarca come facitore della nuova Italia, sconfitto dalle manovre dei nobili, utilizzato cinicamente dal pontefice, abbandonato dai cittadini che lo avevano amato, fu linciato sotto il Campidoglio. Quel giorno il Cefalo d’oro fu notato, immobile, davanti a Castel Sant’Angelo.






Alcuni, tra i più ferventi papalini, cercarono di colpirlo, tirandogli grosse pietre dal ponte. Qualche altro, più animoso, tentò persino di catturarlo. Ma inutilmente. La vecchia divinità fluviale, dopo un rapido guizzo tra i flutti, tornava a fissare muto il simbolo del potere temporale dei Papi.






I più acuti, tra i commentatori politici dell’epoca, interpretarono la coincidenza tra la morte del Tribuno e la singolare apparizione del divino cefalo come una indicazione, con il fissare severo oltre Tevere, delle responsabilità politiche della rovina di Cola di Rienzo






Il Cefalo d’oro era stato molto amato da Cola. Questi era stato acclamato Tribuno il 20 maggio 1347 e qualche mese dopo volle chiamare, in ricordo dell’incontro dell’Isola Tiberina, Vicolo del Cefalo, la strada che dal vecchio tracciato della via Cornelia portava al Tevere, qualche centinaio di metri prima del Ponte Sant’Angelo.






Il dolore del divus piscis fu certamente tanto grande quanto cocente la delusione di un altro estimatore del politico romano, Francesco Petrarca. Stando alle fonti storiche il Cefalo d’oro ricomparve a Roma dopo quaisi due secoli e mezzo ed esattamente il primo giorno del febbraio 1593.











Capitolo 6







Il vento, in quel primo febbraio, soffiava forte a Roma e le serventi, che avevano stesi i panni per asciugarli su greto di Castel Sant’Angelo, avevano il loro bel daffare per impedire che cadessero tra i flutti del Tevere. Un saio scuro sfuggì alle mani preoccupate delle donne e cadde in acqua. Sembrava ormai perso, trascinato dalla corrente, quando sembrò che, come animato da forza propria, risalisse verso il Castello. Lo stupore delle donne si tramutò in strepiti e gesummaria quando dal cappuccio scuro del saio emerse il muso dorato di un enorme cefalo. Gli schiamazzi delle fantesche richiamarono l’attenzione dei passati sul ponte e in un batter d’occhio si formò una folla di curiosi che seguiva i movimenti di quel cappuccio di frate che incoronava la testa di un pesce. La notizia si sparse a macchia d’olio e raggiunse due romani di differente e opposta collocazione: il gesuita, Ignazio Sallusti, archivista capo della Sacra Congregazione della Romana e Universale Inquisizione" e Cola Collanti, un fabbro artigiano. Entrambi, appresa la notizia, lasciarono ogni incombenza. Il prelato salì rapidamente di un piano nel palazzo del Santo Uffizio e chiese udienza trafelato al cardinal Roberto Bellarmino. L’altro lasciò la bottega, attraversò l’Isola tiberina e si infilò in un’osteria di Campo de’ fiori.


“E’ tornato, è tornato” furono le parole che il Sallusti e il Collanti, ciascuno, per proprio conto, dissero al rispettivo interlocutore. Tanto era accigliato il viso del gesuita quanto entusiasta ed emozionato quello del fabbro. Se Roberto Bellarmino si preoccupò di raccomandare una verifica dettagliata della notizia, Cola Collalti invitò i membri della Compagnia dei giovani adoratori del Cefalo d’oro ad accorrere senza indugio a Ponte Sant’Angelo per interpretare l’evento. Ma nessuno dei due dubitò che si trattasse dell’antico pesce tiberino.





Quale storico evento aveva richiamato il Cefalo d’oro a riemergere da secoli di assenza? Se era questo l’interrogativo irrisolto degli affiliati alla Confraternita, per il Cardinal Bellarmino non v'erano dubbi. Era già stato informato dell’estradizione di Giordano Bruno concessa dai Veneziani alla Inquisizione romana e il 27 di quel mese era atteso nelle segrete del palazzo del Santo Uffizio. A Bellarmino, uomo di scienza, il processo al frate di Nola, destava grande preoccupazione. Sapeva bene che le opere dell’eretico domenicano circolavano clandestinamente tra i romani e non gli sfuggiva l’errore politico di farne un martire della ragione scientifica. Doveva assolutamente prendere tempo, in contrasto con chi voleva una rapida tortura e, in caso di mancata abiura, un altrettanto rapido rogo. La lotta di Bellarmino con i falchi dell’inquisizione romana e con il filosofo nolano, per farlo abiurare, si protrasse per sette anni. Poi, nonostante gli spiragli che sembravano aprirsi con la richiesta di Giordano Bruno di riconoscere eretiche alcune sue proposizioni ma ex nunc, fu lo stesso autore di De gli eroici furori che chiuse ogni possibilità, rifiutando il compromesso e avviandosi verso la definitiva condanna.






In quei sette anni il Cefalo e la confraternita dei Giovani cefalesi, sempre attiva dagli anni della sua fondazione, nonostante la caccia spietata della gendarmeria vaticana, non restarono inoperosi: mentre il pesce divino, emergendo tra i biondi flutti del Tevere  sbeffeggiava  gli archibugieri papalini appostati lungo le rive, gli adepti del culto cefalese stilavano, nottetempo, frasi a sostegno del frate nolano sui muri di Trastevere.






La notte del 31 dicembre 1599 , durante i fuochi d’artificio del Capodanno giubilare, i romani, assiepati tra Ripetta e Ponte Sant’Angelo, per godersi lo spettacolo pirotecnico, furono testimoni di un ben triste e raccapricciante presagio. A metà fiume, dinanzi la Mole Adriana, rischiarato dalla luce brillante della neve cinese, si erse all’improvviso il sacro pesce, intabarrato nel saio di frate, che sette anni prima aveva sottratto alla corrente fluviale: pochi attimi dopo, i frammenti, incendiati e roventi che ricadevano dal cielo, lo arsero in uno sfavillio di scintille. L’eccezionale prodigio ammutolì la folla e inorridì i discepoli dell’antica divinità tiberina, che ne piansero la morte con una fiaccolata a Ripa grande. I più intelligenti e acuti degli osservatori compresero, con dolore ulteriore, il messaggio che si nascondeva in quell’ignea epifania. Il giorno 17 del febbraio seguente, davanti al Teatro Pompeo, in Piazza Campo de’ Fiori, con la lingua in giova – serrata da una mordacchia – denudato e legato a un palo, Giordano Bruno fu arso vivo. L’8 febbraio, dopo aver rifiutato ogni abiura, costretto a inginocchiarsi per ascoltare la sentenza pronunciata dal cardinal Ludovico Madruzzo (14 ), il filosofo campano aveva così apostrofato gli inquisitori:


«Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam» - Forse tremate più voi nel pronunciare questa sentenza che io nell'ascoltarla -


Il 19 di febbraio, l’Avviso di Roma dà notizia che “venerdi mattina in Vicolo del Cefalo, sono stati rinvenuti, nudi, legati, anneriti di pece et con un cefalo crudo in bocca et con la lingua in giova, tre confratelli dell’Arciconfraternita di San Giovanni Decollato, la quale solitamente accompagna li condannati ad abbrugiare vivi con letanie e conforto. Li tre homini, Teodoro Librando, detto er pecora, Francesco Menapace, detto epuratore et Enrico Todisco, detto er chiacchiera si erano distinti, lo giovedì passato, havendo prelevato lo scelerato frate domenichino de Nola, heretico ostinatissimo, di che si scrisse con le passate, dal carcere di Tor di Nona per portarlo a Campo di fiori per solennissima giustizia.”






Note






Il collegio dei cardinali inquisitori era composto da : Arrigoni, Bellarmino,Berberi, Borghese, Dezza, Pinelli , Santorio, Sasso, Sfondrati e Madruzzo. La sentenza fu letta nella casa del cardinal Ludovico Madruzzo, adiacente alla chiesa di Sant’Agnese in Piazza Navona.